Con la ripresa dell’attività politica dopo la pausa estiva, entra nel vivo una fase che si preannuncia di intensa attività legislativa. Oltre all’approvazione, sempre complessa, della Legge di Bilancio, in autunno il Parlamento sarà impegnato nell’approvazione di 23 provvedimenti indispensabili per accedere alle rate dei finanziamenti che la Commissione Europea deve versare all’Italia.
Pubblica Amministrazione, giustizia, università, concorrenza, tributi, politiche del lavoro sono solo alcune delle materie su cui si interverrà. Eppure, dell’ampio dibattito che ci si potrebbe aspettare su temi di primo piano della vita sociale, non vi è traccia. L’impossibilità di sciogliere le camere e l’assenza di maggioranze teoriche alternative a quelle già sperimentate durante la legislatura rendono il governo più forte del Parlamento ancor di più di quanto lo sia stato negli ultimi due decenni.
Logico dunque attendersi che le camere voteranno in tempi brevi quanto l’esecutivo proporrà, indipendentemente dall’orientamento delle riforme che verranno proposte. Il silenzio sui temi da affrontare, coperto dalle chiacchiere su green pass e mascherine, solo in apparenza è giustificato dal profilo autorevole del Presidente del Consiglio e dai vessilli della “responsabilità” e del “pragmatismo” abitualmente sventolati da centrosinistra e centrodestra in queste occasioni.
La realtà è quella di una crisi dei partiti, della loro capacità di produrre una cultura politica, dei programmi e una classe dirigente all’altezza di un presente che lancia nuove e sempre più complesse sfide, alle quali non si danno risposte ma slogan. Così le riforme scompaiono dal dibattito, la transizione ecologica viene derisa dal ministro scelto per promuoverla, la politica estera non esiste, la crisi sociale assume i contorni di una guerra ai poveri.
Un quadro in cui i gruppi di interesse meglio strutturati e capaci di promuovere i loro obiettivi si sono appropriati di spazi enormi. Non è un caso che sui quotidiani sotto il controllo delle maggiori realtà economiche italiane, in queste settimane fioriscano commenti che propongono una elezione di Draghi al Quirinale, non perché degno di quella carica, ma per perpetuare i propri indirizzi politici; o una rielezione di Sergio Mattarella affinchè, con l’autorevolezza conferitagli dalla riconferma, metta al riparo il governo Draghi dalla crisi che potrebbe arrivare alla fine del semestre bianco e – questo il non detto – evitare elezioni da cui potrebbero uscire esiti non soddisfacenti per quei gruppi.
Ipotesi offensive della sovranità popolare e prive di una pur minima cultura costituzionale, ma che sono la naturale conseguenza di una crisi della rappresentanza politica – e quindi della qualità della democrazia – profonda e, al momento, senza soluzione.
Davide Tondani