Al G8 di Genova la feroce repressione contro chi denunciava  i danni della  globalizzazione

Vent’anni fa nel capoluogo ligure le violenze e le torture che macchiarono in modo indelebile la storia democratica del nostro Paese

“La più grande violazione dei diritti umani in occidente dopo la seconda guerra mondiale” – così si pronunciò Amnesty International di fronte ai fatti di quei giorni – giunge al proprio ventennale: a Genova, tra il 19 e il 22 luglio 2001, la repressione violenta delle manifestazioni contro il vertice G8 rappresentò non solo una sequenza pianificata di violenze arbitrarie e torture, ma anche – soprattutto – un trauma generazionale. Per i giovani che da tutta Europa accorsero nella città ligure e per quelli che nei propri luoghi di vita partecipavano e contribuivano ai processi di elaborazione politica e culturale di una stagione in cui emerse come la globalizzazione stava producendo un mondo sempre più disuguale ed ecologicamente compromesso. Per quella generazione che con i suoi ideali e le sue pratiche marcava le distanze dal disimpegno individualista degli anni Ottanta, Genova fu quello che per la generazione del Sessantotto fu Piazza Fontana: la reazione del sistema a quel moto globale di cambiamento del mondo e della società.
Certo, la presenza di un’ala fortemente conflittuale e antagonista fece sì che anche il movimento non fosse immune da colpe; l’ingenuità di pensare che non fosse necessario un servizio d’ordine consentì l’infiltrarsi della violenza; ma dall’altro lato il governo e i responsabili dell’ordine pubblico rifiutarono qualsiasi tipo di dialogo, lanciando per settimane come unico segnale la militarizzazione spinta dei piani di sicurezza. Una militarizzazione che tuttavia consentì l’arrivo dall’estero (nonostante il ripristino dei controlli di frontiera) dei gruppi anarcoidi dei Black Block, che indisturbati devastarono e saccheggiarono Genova mentre migliaia di manifestanti pacifici furono oggetto di atti di gratuita brutalità e violenza.
La morte di Carlo Giuliani, freddato nell’atto di lanciare un estintore dentro una camionetta dei Carabinieri accerchiata, il cui cadavere fu profanato spaccandogli una pietra in fronte per tentare di allontanare le responsabilità dai militari, non fu il culmine di quella tragica settimana.

L’esterno dell’edificio che ospita la scuola Diaz a Genova

E non lo fu nemmeno l’irruzione alla scuola Diaz-Pertini da parte della Polizia, una rappresaglia giustificata da prove ritenute poi false in ogni sede di giudizio, dove decine di attivisti furono pestati a sangue nel sonno. Perché chi uscì sulle proprie gambe da quella mattanza fu tradotto nella caserma di Bolzaneto insieme ai fermati dei cortei del giorno: lì gli arrestati, privati dei più elementari diritti di difesa, impediti nel contattare i famigliari o un avvocato, furono inghiottiti per 48 ore in un buco nero in cui lo Stato si trasformò in aguzzino capace di botte, maltrattamenti, molestie, umiliazioni. L’assenza di una legge sulla tortura alleggerì le posizioni dei responsabili.
L’argine alla distruzione dello Stato di diritto fu rappresentato in quelle ore e negli anni successivi dal pubblico ministero Enrico Zucca. Nonostante le pressioni politiche, il giudice non convalidò centinaia di arresti e la richiesta di fermo dei vertici del Genoa Social Forum, iniziando a fare luce su quei tristi giorni in cui la verità sulla condotta dell’ordine pubblico, nel contesto di una catena di comando che coinvolse i massimi vertici della Polizia e del governo Berlusconi, non poteva essere occultata. Agli albori della rivoluzione internet, migliaia di videocamere, pionieristici cellulari con videocamera e macchine fotografiche digitali produssero ore di documentazione che Indymedia, un sito indipendente della prima generazione del web, rimetteva in rete in tempo reale, integrando le riprese tv.
Ancora oggi, nonostante le condanne, i risarcimenti e alcune ammissioni di responsabilità, la stampa e le forze politiche che sostenevano il governo Berlusconi criminalizzano quel movimento, allora spregiativamente bollato come “no global” dagli stessi che oggi elogiano il sovranismo. È il segno di una radice autoritaria e violenta che da queste condotte ha lucrato e ancora lucra consenso, come hanno mostrato nel corso degli anni i casi Cucchi e Aldrovandi, fino ai fatti del carcere di Santa Maria Capua Vetere di questi giorni: al ripristino del prestigio di istituzioni i cui membri, in larga maggioranza, espletano il proprio dovere con condotte ineccepibili, oggi come allora si preferisce la difesa aprioristica degli abusi.

Davide Tondani