
Per la prima volta in Italia arriva un trasferimento per sostenere la natalità a vantaggio di tutti i genitori
Una riforma attesa da oltre 20 anni sta per diventare realtà: l’assegno unico per i figli sarà al via dal primo luglio 2021. La settimana scorsa, infatti, il Senato ha definitivamente approvato il decreto legislativo che sancisce la riforma ed entro il 28 giugno dovranno essere definite puntualmente risorse ed importi del programma.
Dopo due decenni di proclami sul valore della famiglia e sulla necessità di un suo sostegno monetario, è stato il governo Conte II, nel 2020, a sostenere l’iter parlamentare dell’assegno unico e a stanziarne nella legge di Bilancio i 3 miliardi per il 2021 e i 6 per il 2022 necessari a farlo partire. Un risultato che, paradossalmente, non ha fermato le dimissioni mute ed eterodirette del “volto” della riforma, la ministra per la famiglia Elena Bonetti, dimissioni che diedero di fatto il via alla crisi di governo.
L’esponente renziana è tornata al suo posto con Draghi, pronta a celebrare il successo di “una misura universale, una misura per tutti, finalmente” e rivendicando che “le famiglie, ma soprattutto i bambini e i giovani sono al centro delle politiche di investimento dell’Italia”.
Mettendo da parte le acrobazie della politica, per la prima volta tutti i genitori potranno accedere al nuovo programma, eliminando le differenze legate agli assegni familiari, che andavano solo ai lavoratori dipendenti, o alle detrazioni Irpef per figli a carico e per spese relative agli asili nido, a cui potevano accedere solo coloro che avevano un lavoro. Assieme a quelle misure, scompaiono il bonus “mamme”, il bonus “bebè” e altri sostegni minori.
Ai genitori servono anche servizi e diritti
Matteo Salvini, nella buffa posizione di leader “di lotta e di governo”, puntualizza che va bene l’assegno unico, ma che l’orizzonte è il quoziente famigliare, un’Irpef su base famigliare e non più individuale che valorizzerebbe la presenza dei figli ma che penalizzerebbe, dentro le famiglie, la donna – nella maggioranza dei casi il percettore del reddito più basso – togliendo, di fatto, l’incentivo dal punto di vista fiscale, a cercare un’occupazione retribuita. È la proposta da tempo sostenuta anche da quella parte di mondo cattolico a cui la Lega continuamente strizza l’occhio, che si dichiara a favore della famiglia “tradizionale” anche, in modo implicito, rispetto ai ruoli. E quello della donna è di essere “angelo del focolare”.
Fortunatamente la società si è evoluta rispetto ai canoni dei nostalgici ed oggi, sia pur tra mille contraddizioni, difficoltà e ingiustizie, riconosce alla donna opportunità di realizzazione tramite il lavoro e, di conseguenza, coinvolge sempre di più l’uomo nel lavoro di cura che la crescita dei figli richiede. Se si accetta questo, l’assegno unico, novità attesa e positiva, da solo non basta a offrire un sollievo alle famiglie con i figli né ad essere un incentivo alla natalità capace di invertire il drammatico inverno demografico che l’Italia sperimenta. I tassi di occupazione femminile e i dati sull’abbandono del lavoro dopo la maternità ci dicono chiaramente che, oltre ai sostegni, le famiglie italiane hanno bisogno di diritti.
Siamo indietro rispetto al resto d’Europa, per esempio, su congedi di maternità e paternità, sulla loro durata e retribuzione. La disinvoltura con la quale sono state chiuse le scuole nelle regioni “rosse”, prevedendo solo sostegni di facciata per le famiglie – c’è davvero chi crede che si possa fare smart working con i figli a casa? – ci dice quanta strada c’è da fare. Non solo: le famiglie hanno bisogno di servizi. In ambito scolastico, il tempo pieno riguarda solo il 38% degli alunni delle primarie, molto meno alle medie, e non sempre per scelta delle famiglie, ma per l’offerta insufficiente, analogamente agli asili nido, frequentati dal 12% dei bambini in età 0-3.
L’infanzia del resto è il settore dei tagli e delle successive promesse. Ricordate “mille asili in mille giorni”? Ma offrire più diritti e servizi significa per la politica redistribuire potere tra gruppi sociali e risorse economiche scarse: scelte di campo che partiti deboli e privi di visione non riescono a fare. (d.t.)
I 15 miliardi spesi in questi trasferimenti confluiranno nell’assegno unico, che coprirà il ciclo di vita del figlio, dal settimo mese di gravidanza fino a 21 anni di età. L’importo finale sarà il risultato di due voci. Una cifra “base”, uguale per tutti, indipendentemente dalla situazione economica della famiglia: è il riconoscimento del valore sociale di ogni figlio. A questa si aggiungerà una somma che varierà in base all’indicatore della situazione economica equivalente (ISEE), che tiene conto, dunque, delle differenze di ricchezza e di reddito tra le famiglie.
L’assegno varierà anche in base all’età dei figli a carico. Inoltre, per i figli successivi al secondo l’importo “base” sarà maggiorato del 20%, mentre un ulteriore incremento, dal 30 al 50%, sarà riconosciuto per i figli disabili, per i quali l’assegno verrà erogato anche oltre i 21 anni se il figlio permarrà nel nucleo famigliare. I decreti attuativi stabiliranno le cifre esatte degli assegni, ma dati gli stanziamenti, si parla di somme da 80 a 250 euro mensili, da calcolare in base all’età del figlio e al valore dell’Isee del nucleo familiare.
Con un vincolo: evitare di penalizzare le famiglie che già oggi accedono alle misure di sostegno alla genitorialità, quelle che però verrebbero accorpate nel nuovo assegno unico dal 1° luglio 2021. La nuova misura consentirà, infatti, di erogare il beneficio con criteri razionali e più giusti – si pensi solo all’utilizzo dell’Isee anziché del solo reddito – ma secondo l’Istat penalizzerebbe circa il 30% degli attuali beneficiari. Per evitare ciò servirebbero ulteriori 800 milioni di euro, risorse che spetta al Governo reperire e mettere sul piatto.
(Davide Tondani)