Non c’è una fine. Trasmettere la memoria di Auschwitz

Si può accedere alla realtà di Auschwitz attraverso la parola? E’ stato detto che scrivere poesia dopo Auschwitz non è più possibile (Adorno). Ogni indagine sembra un tentativo di parlare di ciò che è impossibile dire (Wittgenstein). In presenza del male “che ha raggiunto una indicibile perfezione” (P. De Benedetti), la parola è dunque impotente. Parlano le due tonnellate di capelli che stanno diventando polvere: parlano le protesi, le valigie, gli occhiali, le scarpe anche piccolissime, i vestitini da neonati, i ciucci, i biberon. Ma soprattutto parlano i volti delle vittime, fotografati poco prima di soffocare nel gas, e lo sguardo attonito di Zeilek, il ragazzo che appare sulla copertina di Non c’è una fine (Bollati Boringhieri) scritto da Piotr M. A. Cywinski, direttore del Memoriale e Museo di Auschwitz Birkenau.
Un libro pregevole, denso di dubbi e di tormenti. Forse non sarà mai possibile dire che cos’è stato veramente Auschwitz così come non è facile definirne il significato attuale. Eppure bisogna ricordare. Ma Auschwitz resta misterium iniquitatis. Auschwitz va oltre la capacità umana di capire e di immaginare. La memoria è necessaria, ma, oltre ad essere stata ostacolata per molti anni, sappiamo quali siano i suoi limiti e le insidie. Perfino l’empatia, unica via percorribile, non può essere piena.
Come entrare nella sofferenza di chi, sceso da orrendi vagoni merci, si avvia direttamente alla rampa che porta alla camera a gas? Sentirsi fra la folla silenziosa in preghiera (Shemà Israel): appartenere a famiglie intere, nonni figli nipoti, tenuti cinicamente insieme per evitare tentativi di fughe e ribellioni: è possibile tutto questo? Come vivere fino in fondo il dolore che nessuna parola può dire? Anche l’emozione della testimonianza di Anna Frank quale efficacia educativa può avere?
Identificarsi con la vittima funziona: “Ma perché gli adolescenti di oggi capiscano meglio ‘dovrebbero leggere’ il diario di un adolescente ariano mentre osserva la tragedia degli ebrei e non prova nemmeno a lanciare un tozzo di pane al di là del muro del ghetto”. Purtroppo uno scritto simile non esiste.
Abbiamo problemi con le parole a dire la sorte dei 200.000 bambini, i primi a morire nelle camere dove il gas saliva dal basso: abbiamo problemi a rispondere alla domanda su come si possa diventare SS. Belve? Criminali? Troppo semplice “sottrarre” la nostra umanità dal male assoluto.
Ci sentiamo migliori, è vero, ma il problema del male e della disumanizzazione ci riguarda e va affrontato in modo meno sbrigativo. Cywinski affronta grandi questioni ancora aperte: il significato di Auschwitz, Auschwitz e la Shoah, il rapporto fra Auschwitz e gli altri luoghi di sterminio distrutti prima dell’arrivo degli Alleati, la pianificazione dell’Olocausto, e poi il problema del silenzio di Dio, il silenzio di chi sapeva, fino al fondamentale capitolo conclusivo su Memoria consapevolezza e responsabilità.
L’autore si ferma anche a considerare il comportamento di chi ogni anno visita ciò che resta di questo luogo infernale e commenta le visite di Giovanni Paolo II e di Benedetto XVI.
Ad Auschwitz è morta l’Europa. Il terreno di Birkenau ricoperto da frammenti di ossa umane che sembrano sassolini bianchi, è un simbolo. L’Europa non deve dimenticare che cammina su quel terreno insanguinato fra gas e cenere. I padri fondatori nel dopoguerra ne erano consapevoli. E oggi?

Pierangelo Lecchini