
Cento anni fa nel teatro Goldoni si consumava la scissione tra i Socialisti: intonando l’Internazionale un gruppo di delegati uscì e si diresse al San Marco

Nella tarda mattinata del 21 gennaio 1921, un gruppo di delegati che stava partecipando, a Livorno, al XVII Congresso del Partito Socialista lasciava l’ampia platea del teatro Goldoni e intonando l’Internazionale si dirigeva verso il non lontano Teatro San Marco; l’obiettivo di quella breve marcia, avvenuta sotto una pioggia insistente, era quello di dar vita al Partito Comunista d’Italia. Durante il Congresso socialista, infatti, erano state presentate tre mozioni; quella dei cosiddetti “comunisti unitari” guidati da Giacinto Menotti Serrati, che era destinata a risultare largamente maggioritaria e che prevedeva l’adesione ai principi e ai metodi della III Internazionale, nata a Mosca nel 1919, conservando tuttavia “provvisoriamente” la denominazione di socialista al partito; quella dei riformisti di Filippo Turati, contraria all’uso della violenza e dei mezzi illegali nella lotta di classe; e quella dei “comunisti puri”, decisi a trasformare subito il partito socialista in partito comunista, sezione della III Internazionale.
Come accennato, il risultato dello scrutinio relativo alle tre mozioni aveva visto il successo degli unitari con 98.028 voti contro i 58.783 dei puri e i 14.695 dei riformisti, ma Amadeo Bordiga, leader dei puri, aveva contestato le procedure seguite e aveva invitato i delegati del suo schieramento a lasciare la sala per fondare un nuovo partito. A quella storica scissione si era arrivati in un clima decisamente incandescente. L’Italia era uscita dalla prima guerra mondiale da vincitrice, avendo sopportato un durissimo sacrificio nazionale dopo la disfatta di Caporetto, senza ottenere dal trattato di Saint-Germain la piena soddisfazione delle sue aspettative, maturate in seguito al Patto di Londra.

Si era fatto strada così il mito della “vittoria mutilata”, coltivato con cura dai nazionalisti di D’Annunzio che nel settembre del 1919 aveva posto in essere la provocatoria impresa di Fiume. Tra il 1919 e il 1920, poi, le tensioni politiche, mal fronteggiate da governi deboli come quelli di Orlando, di Nitti e di Giolitti, privi di una vera maggioranza parlamentare, erano sfociate nel “biennio rosso”, alimentato anche da una serie di profonde difficoltà economiche, dettate in primo luogo da una pessima distribuzione della ricchezza nel paese, dall’avvio dei licenziamenti di massa e dall’abolizione del prezzo politico del pane. Di fronte ad un simile quadro, agitato dalle numerose occupazioni di fabbriche e da violenti scontri nelle campagne animati dal primo fascismo, il Partito socialista aveva tenuto sia in termini politici sia sul piano sociale.
Dopo il Congresso di Roma, del settembre del 1918, e quello di Bologna dell’ottobre del 1919, che avevano segnato un chiaro spostamento in direzione massimalista dell’asse del partito, nelle elezioni del novembre successivo, le prime con il sistema proporzionale e con un pieno suffragio universale maschile, i socialisti ottennero quasi il 32% dei voti, conquistando 156 deputati. Sul versante delle rivendicazioni sociali la CGDL di Ludovico D’Aragona, su posizioni di aperto riformismo, e soprattutto la FIOM di Bruno Buozzi, più sensibile allo scontro di classe, avevano ottenuto risultati importanti costringendo gli industriali al riconoscimento delle 40 ore settimanali, a significativi incrementi salariali e alla formazione delle commissioni interne, soprattutto nelle grandi fabbriche. In questo senso la linea politica dura di Serrati e le capacità negoziali di d’Aragona e Buozzi avevano consentito alla sinistra di conservare un ampio consenso tra le masse lavoratrici.

Tuttavia, proprio nel biennio rosso erano maturate le condizioni per la spaccatura tra socialisti e comunisti. Naturalmente un peso decisivo avevano avuto la rivoluzione russa, la presa del potere da parte di Lenin e, in particolare, la nascita nel marzo del 1919 della III Internazionale, che aveva sancito la necessità della formazione di partiti comunisti di chiara matrice rivoluzionaria.
Gli effetti in Italia non tardarono a farsi sentire. A Torino, nel maggio di quell’anno, era uscito il primo numero della rivista “Ordine nuovo”, fondata da Antonio Gramsci, Angelo Tasca, Umberto Terracini e Palmiro Togliatti, che, sul modello sovietico, attribuiva ai consigli di fabbrica la capacità di elaborare una strategia rivoluzionaria. A Napoli, era stato Amadeo Bordiga, già nel dicembre del 1918, a creare il settimanale “Soviet”, che polemizzava apertamente con massimalisti e riformisti, rifiutando la lotta parlamentare. Si faceva strada, così, con estrema rapidità l’idea che occorresse una forza realmente eversiva e che sapesse cogliere le opportunità fatte fallire invece dal Partito socialista. Agli occhi dei “comunisti puri” infatti, ai lavoratori italiani era mancata una guida rivoluzionaria sia durante la “settimana rossa” del 1914 sia in occasione del biennio rosso, quando, in entrambi i casi, di fronte al pieno appalesarsi delle contraddizioni del sistema liberale, erano prevalse la moderazione e le paure socialiste, non più accettabili dopo che il bolscevismo aveva dimostrato la forza invincibile delle classi lavoratrici.
Queste posizioni vennero espresse una prima volta in un convegno svoltosi ad Imola nel novembre 1920, che riuniva le diverse anime critiche nei confronti del Partito socialista e raccoglieva il consenso anche di gran parte dei militanti della Federazione giovanile socialista italiana, guidata da Luigi Polano e fermamente schierata sulle tesi della III Internazionale. A Livorno, poi, le tensioni interne esplosero con forza e, come ricordato, portarono nel malmesso Teatro San Marco al congresso costitutivo del Partito Comunista d’Italia che elesse un Comitato centrale e un Comitato esecutivo con sede a Milano, provvedendo anche a darsi uno statuto in cui erano previste sezioni e federazioni provinciali. Le prime fasi di vita del nuovo partito furono tutt’altro che facili. Nelle elezioni del maggio del 1921, mentre il Partito socialista otteneva 123 seggi, i comunisti con 291.952 voti elessero solo 15 deputati, dimostrando che il consenso popolare a sinistra era ancora saldamente nelle mani dei massimalisti provenienti dalla tradizione. Soprattutto la dinamica intestina del Partito comunista si logorò nello scontro tra la componente che era favorevole, secondo quanto auspicava la III Internazionale, ad un nuovo accordo con i socialisti, che nell’ottobre del 1922, in piena marcia su Roma, avevano espulso i riformisti, e l’area dominante di Bordiga, fresca di scissione e dunque assolutamente contraria a simili ipotesi.
Si consumava così quella che Togliatti, allora non ancora membro del Partito Comunista, avrebbe definito una fase di “profondissima crisi della direzione”, destinata concludersi solo con l’assunzione della segreteria da parte di Antonio Gramsci. Ma, ormai, stavano per arrivare la leggi “fascistissime” e la clandestinità.
Alessando Volpi
Università di Pisa