Quell’alpino di Zeri che non  arrivò sui monti della Grecia

Evaristo Bolleri morì ottant’anni fa nel naufragio del piroscafo “Firenze” silurato davanti a Valona

Il piroscafo “Firenze” prima della guerra
Il piroscafo “Firenze” prima della guerra

Nel 1940 Evaristo Bolleri aveva 30 anni; viveva a Zeri, ma era tornato a vestire la divisa grigio verde, richiamato sotto le armi per l’ennesima guerra del Duce, quella contro la Grecia. Dopo le campagne per la “conquista” delle colonie d’Africa, dal 10 giugno l’Italia aveva seguito l’alleato germanico consegnando la dichiarazione di guerra agli ambasciatori di Francia e Inghilterra.
L’occupazione e l’annessione di quattro dipartimenti appena al di là delle Alpi occidentali erano state realizzate in breve tempo: una Francia ormai in ginocchio si era arresa e a Mussolini il bilancio in vite umane di quei pochi giorni di guerra (più di 600 morti tra gli italiani) era sembrato appena sufficiente per legittimarlo a sedere al tavolo dei vincitori. Subito dopo era venuto il momento di “spezzare le reni alla Grecia”.
Evaristo Bolleri, del 2° Reggimento della “Cuneense” era tra le migliaia di Alpini destinati a combattere sul fronte greco. Quella mattina erano quasi in mille sul piroscafo “Firenze” salpato da Bari per attraversare l’Adriatico e approdare sulle coste albanesi. Una rotta che in quelle settimane la nave, varata a Riva Trigoso nel 1912, aveva già compiuto più volte, sempre per il trasporto delle truppe italiane d’invasione in quella terra d’Albania che da un anno è territorio “italiano”, testa di ponte verso la conquista della Grecia.
Una vigilia di Natale di guerra: Zeri è lontana, le coste albanesi si vedono invece ormai all’orizzonte: dopo tre giorni di attesa per le cattive condizioni del mare il “Firenze” all’una di notte del 24 dicembre aveva lasciato gli ormeggi affiancato dall’ “Italia”; davanti a Brindisi si erano aggiunti un altro piroscafo, l’ “Argentina”, la motonave “Narenta” e altre due navi di scorta: in totale più di tremila uomini e oltre 700 tra muli e cavalli. Alle 7,30 il convoglio si era diretto in mare aperto con davanti sette ore di navigazione; un sollievo: le truppe erano a bordo dal 21 dicembre, quasi tutti i soldati avevano sofferto il mal di mare, debilitati dal digiuno forzato e dal prolungato malessere.
Adesso però le coste dell’Albania sono lì davanti, tra un’ora il piroscafo sarà finalmente in porto e si potrà sbarcare. Qualcuno ha già iniziato a prepararsi, vengono impartiti i primi ordini: i monti della Grecia li aspettano anche se prima ci sarà da attraversare l’Albania, ma in tutta tranquillità. Nella truppa in molti ignorano che il pericolo si nasconde sottacqua: anche se la vigilia di Natale i sottomarini Alleati continuano a pattugliare quello stretto braccio di mare.
Il siluro fatale viene lanciato dal “Papanikolis” alle 13,20 e pochi secondi dopo colpisce al cuore il “Firenze”: l’esplosione della sala macchine provoca un boato assordante, lo scavo si squarcia, alcuni uomini muoiono nell’esplosione, molti altri sono sbalzati fuori bordo dall’onda d’urto, a centinaia si tuffano man mano che lo scafo esce dall’acqua puntando verso il cielo prima di inabissarsi, lentamente.
Un radiotelegrafista della nave racconterà che “le scialuppe di salvataggio venivano prese d’assalto dagli Alpini. Erano stracariche, fino all’inverosimile, e questo faceva rompere i cavi prima che potessero essere ammainate. Moltissimi si buttavano in acqua con i loro pesanti scarponi senza aver indossato bene il salvagente”.
In maggioranza gente di montagna, in tanti non sanno nuotare: chi non riesce ad aggrapparsi a qualche cosa che lo tenga a galla annega prima che le altre navi del convoglio possano prestare soccorso. Dei 903 uomini a bordo 93 perdono la vita: a parte tre marinai dell’equipaggio sono tutti Alpini.
Evaristo Bolleri è uno di questi: non è arrivato sui monti della Grecia, non ha visto il lutto degli Alpini sul ponte di Perati, né l’acqua della Vojussa farsi rossa per il sangue dei suoi compagni mandati allo sbaraglio dal delirio fascista, male equipaggiati, nell’inverno balcanico. è rimasto in fondo al mare; la memoria è affidata ad un nome che compare sulla lapide ai caduti nella piazza di Patigno e in quella sulla chiesa di Adelano.

(p. biss.)