Autostrade: è giunta  all’epilogo l’era Benetton

Dopo l’annuncio della loro progressiva uscita dalla società concessionaria della rete

30autostradeL’accordo raggiunto la settimana scorsa tra governo e Benetton per l’uscita degli imprenditori veneti dalle concessioni autostradali rappresenta in maniera paradigmatica gli ultimi vent’anni del rapporto Stato-mercato in Italia.
In parallelo con il gigantesco processo di privatizzazione di aziende statali avviato nei primi anni ’90, si fece largo anche in Italia l’idea che i monopoli naturali (reti viarie, elettriche, telefoniche, gasdotti, acquedotti, etc.) potessero essere gestiti da un privato meglio di quanto potesse fare il monopolista pubblico. A sostenerlo c’era la teoria economica dominante, anche se molti studi ammonivano sul fatto che il successo dell’operazione sarebbe dipeso da quanto il “regolatore” (lo Stato) avrebbe saputo essere buon arbitro tra legittimi obiettivi di profitto del concessionario e benessere sociale.
Ed è su questo punto che inciampò l’operazione autostrade, ennesimo fallimento italiano nella ricerca di un equilibrio tra Stato e mercato. Nel 1999 (governo D’Alema) la famiglia Benetton acquisisce per 2,5 miliardi il 30% del Gruppo Autostrade dall’Iri, che ha avviato la privatizzazione della società.
Nel 2003 i Benetton raggiungono il controllo totalitario di Autostrade per l’Italia (Aspi). La famiglia veneta acquista a debito, compensando i costi con i forti incassi dovuti ai pedaggi e all’aumento del traffico. Le critiche per l’accondiscendenza dei governi che si susseguono rispetto al modo di operare dei nuovi gestori sono suffragate da rilievi tecnici: nel 2006 l’Autorità per la vigilanza sui contratti pubblici segnala a Governo e Parlamento che Aspi – il più grande dei 25 concessionari, con 2.857 km di rete – nel periodo 1997-2005, a fronte di investimenti concordati per 4,1 miliardi, ne ha realizzati per soli 2,2 miliardi.

Il fallimento del rapporto Stato-mercato

La vicenda ponte Morandi, nell’epoca del populismo e dello sciacallaggio al governo – come dimenticare il polverone mediatico sulla revoca delle concessioni sollevato dal ministro Di Maio mentre i corpi delle vittime del disastro dovevano ancora essere recuperati? O l’esultanza da stadio del ministro Toninelli all’approvazione del Decreto Genova? – ha di fatto trasformato i Benetton nel capro espiatorio di un intero sistema politico, manageriale e imprenditoriale responsabile della fallimentare gestione delle concessioni pubbliche del nostro Paese: dalle grandi reti strategiche nazionali, ai servizi postali, fino alle cave e alle piccole concessioni balneari.
Del resto l’opinione pubblica si alimenta di episodi simbolici e questo del crollo del ponte, delle vittime, delle continue code è altamente iconico. Ma i governi che si sono alternati nell’ultimo ventennio, di qualsiasi orientamento, non hanno vigilato non solo su quanto accadeva nelle autostrade, ma anche sulla gestione degli altri ex monopoli pubblici: nelle telecomunicazioni, dove gli assalti alla gallina dalle uova d’oro Telecom hanno indebolito l’azienda che già da anni avrebbe dovuto portare la tanto invocata banda larga in tutto lo Stivale; così come in tante ex municipalizzate dei servizi idrici, dove nemmeno è stato dato corso al dettato del referendum popolare del 2011.
Del resto, in uno Stato retto da una politica fragile, finanziamenti a partiti e fondazioni, posti in consigli di amministrazione, ricatti occupazionali sono argomenti di convincimento formidabili a disposizione del “capitalismo di relazione” del nostro Paese che, alla competizione nel mercato aperto, soprattutto nella difficile epoca della globalizzazione, preferiscono le rendite garantite dei monopoli naturali.
I Benetton, con la loro virata dal rischioso settore tessile verso le più remunerative e protette concessioni pubbliche (autostrade in Italia e in Spagna, Aeroporti di Roma, Eurotunnel) fanno parte di questo mondo, ma non sono i soli.

(Davide Tondani)

La revisione della concessione che ne segue è lunga e incappa in nuovi rilievi, di fronte ai quali il governo Pdl-Lega tira dritto: la convenzione è rinnovata nel giugno 2008, per 30 anni, con una clausola di adeguamento dei pedaggi smaccatamente favorevole ad Aspi, che riesce a spuntare un tasso di remunerazione del capitale del 10% contro il 7% medio delle concessioni in altri settori.
Proroghe, assenze di aste per le concessioni, regimi tariffari discutibili non sono a vantaggio dei soli Benetton, ma di tutte le concessionarie, che continuano a latitare sul piano degli investimenti infrastrutturali: è l’Associazione dei costruttori edili a dire che, a fine 2013, sulle autostrade italiane erano stati realizzati solo l’84% degli investimenti previsti. Due anni dopo la tragedia del ponte Morandi, la discussa dinastia veneta non se ne va a mani vuote: la vendita delle azioni di Aspi frutterà denaro fresco da impiegare in altri affari. Per la gestione della rete autostradale, invece, nell’immediato si prospetta il ritorno, di fatto, alla gestione pubblica tramite Cassa Depositi e Prestiti.
E in futuro? L’intenzione governativa è di favorire all’interno di Autostrade per l’Italia una compagine di azionariato popolare: uno schema che, come già visto ai tempi delle prime privatizzazioni, potrebbe portare qualche nuovo colosso imprenditoriale a dettare legge tra gallerie e viadotti con una quota azionaria minima.