Nel 1799 trecento soldati ebbero la peggio contro i popolani guidati da don Giovanni Monali
La recente pubblicazione del libro di Davide Filippelli “Zeri. Un’autonomia nata dalla rivoluzione francese” ci offre la possibilità di rileggere ed apprezzare un brano di una cronaca ormai quasi dimenticata.
Si tratta della descrizione redatta dallo storico spezzino Giulio Rezasco pochi decenni dopo gli scontri fra l’esercito rivoluzionario della Repubblica francese e gli abitanti delle valli di Zeri.
Sono trascorsi 220 anni da quel 25 maggio 1799, ma l’episodio è significativo in quanto – come sottolinea Davide Filippelli – “è emblematicamente segno di fierezza, di senso di appartenenza territoriale, di solidarietà, di coesione sociale e di protezione civile, tutte qualità che connotano una comunità che aspira alla autonomia”.
“In quel giorno memorando, due colonne di francesi, provenienti, l’una dal Borghetto di Vara e l’altra dalle Cento Croci, circa trecento, comandati da un Graziani còrso, penetrarono nel territorio di Zeri; dove diretti non si sa bene. Ella è pur dubbia la causa prossima del movimento popolare contro di loro.
Alcuni vogliono che i francesi facessero larga rapina di bestiame, come in terra nemica; alcuni che oltraggiassero le donne. In coscienza si può creder l’uno e l’altro. ‘I Francesi ruberieno coll’alito’, scrisse il Machiavelli, che li conosceva; e l’insolenza loro verso le donne è storica. Fatto è che alla notizia dell’avanzarsi dei francesi, quanti in Zeri avessero esperienza d’armi, od erano capaci di menar le mani e comunque d’aiutare i combattenti, corsero ad incontrarli sui monti che cingono la loro valle.
I Francesi procedevano sparsi, non sospettando che un branco di villani e male armati osassero contrastare ai primi soldati del mondo; ancora erano incerti delle vie, non conoscenti dei luoghi. Di ciò trassero loro vantaggio i nostri montanari; ed al suono delle campane a martello, guidati da un umile sacerdote, Giovanni Monali, gli affrontarono.
Combatterono con veggente coraggio, divisi in piccole squadre, come vuole la guerra di montagna, senza esserne stati insegnati (il cuore è maestro a chi l’ha), sempre appostati alla proda di una fossa, ad uno scheggione di monte, ad un ciglione o qualsiasi riparo, aspettanti chetamente il nemico all’agguato; quindi saltar fuori improvvisi, terribili, una o due scariche di fucilate e qualunque altro capitasse alle mani, a colpo sicuro, e via ad appostarsi di nuovo. Assaliti i Francesi in questa forma, di fronte, a tergo ed a’ fianchi, invece di fare una testa grossa sul centro del paese, per difendersi tutti e da tutti, si sparpagliarono e si indebolirono di più. Oramai pericolavano palesemente.
Più volte alzarono segno di resa e di pace; ma non inteso, o non voluto intendere, i Zeraschi continuarono a fulminarli con furia crescente. Se il prete capitano aggiungeva al valore il senno guerriero, de’ Francesi non ne scappava uno. Laonde riusciti vani i loro sforzi di aprirsi un varco in quelle strette mortali e proseguire alla loro via, messi alla disperazione, dovettero contentarsi di retrocedere.
E stremati e franti risalirono il mal disceso Appennino, e calarono pel passo della Foce grande su Borgotaro. De’ Francesi, caduti nel combattimento molti; oltre agli sbandati trovati pe’ boschi il giorno dopo e trucidati anch’essi, forse feriti, forse preganti pietà, certo innocui; e ciò umilia l’affetto e strazia l’anima.
De’ Zeraschi, morti non più che sette, compresovi un prete, Domenico Giuseppe Filippelli, cappellano, d’ottantadue anni, ed una donna, Caterina Rossi, di trentacinque anni, ferita a morte col figliolo delle sue viscere in braccio; il che fa credere che, oltre i sacerdoti, pur così vecchi come il Filippelli, anco le donne avessero parte alla nobiltà del pericolo. Il bambino, strappato poi dal freddo senno materno, fu gittato da’ francesi in uno spineto. Ma, fortunato sopravvisse alla rabbia straniera, tanto che morì da pochi anni. Una sola famiglia, quella del Filippelli, diede tre morti alla patria; sia lode al suo nome.
Ai Zeraschi, della gloriosa vittoria, restarono trofeo molte armi nemiche, delle quali conservano buon numero ultimamente”.
Riferendosi all’episodio, lo storico Giovanni Sforza che lo cita nelle sue “Memorie e documenti per servire alla storia di Pontremoli” aggiunge di aver trovato conferma di quanto riportato da Rezasco nei registri parrocchiali di Zeri dove erano indicati i sette cittadini di Zeri caduti nello scontro. (p.biss.)