Domenica 20 gennaio, II del Tempo Ordinario
(Is 62,1-5; 1Cor 12,4-11; Gv 2,1-11)
A Cana di Galilea viene festeggiato un matrimonio e tra gli invitati ci sono “la madre di Gesù”, Gesù stesso e “i suoi discepoli”. La narrazione di questo matrimonio è ricca di particolari, ma gli sposi non sono nominati. Il protagonista è Gesù. Tutti gli altri, compresa Maria e i discepoli, compaiono in riferimento a lui. Alla fine appariranno come la Chiesa, la comunità alleata con lo Sposo Gesù.
Gli antichi chiamavano questo racconto “la terza epifania”. Per questo la scansione del tempo liturgico lo pone subito dopo la nascita e la visita dei magi. Questa è l’epifania (manifestazione) alla Chiesa. A Betlemme, Dio nasce per tutti, ma dimostra il suo amore prima di tutto verso i marginali, come i pastori, e, in un certo senso, anche come i Magi, gli stranieri.
Allo stesso modo, a Cana, Gesù compie il suo primo segno pubblico, non alla presenza delle autorità civili o ecclesiali, ma al matrimonio di due persone normali, una festa di famiglia. “La madre di Gesù gli disse: «Non hanno vino»”.
Le feste nuziali nell’antico Israele duravano 8 o 9 giorni, ed era una tragedia che venisse a mancare il vino, segno di gioia e prosperità. Senza il vino, non era possibile nessuna festa. Audacemente Maria glielo fa notare.
Un ministero non secondario della Chiesa dovrebbe essere quello di ricordare coraggiosamente al Signore che “non c’è vino”, cioè non c’è gioia, nella vita di qualche fratello. Gesù ci ha lasciato come suo memoriale di consacrare il pane necessario, ma anche il vino gratuito, perché entrambi fanno parte dell’umano. Siamo creature fragili e bisognose, ma capaci di bellezza, di canto e di danza.
Sarebbe stato un guaio se Gesù non fosse intervenuto, ma sarebbe stato peggio se la madre di Gesù non avesse preso l’iniziativa di porre il problema al Figlio. “Donna, che vuoi da me? Non è ancora giunta la mia ora”. Apparentemente sconcertante: “Resta al tuo posto! La mia ora sarà al momento della Passione”.
Maria capisce, e, da madre, si fa discepola, obbedisce al figlio e chiede agli altri di fare lo stesso, pronunciando le uniche parole di tutto il Vangelo: “Qualsiasi cosa vi dica, fatela”.
Il Figlio fa riempire d’acqua fino all’orlo le grandi anfore per la purificazione rituale. Non servono più, perché è la Sua presenza a purificare tutti i convitati. Quell’acqua diverrà vino, e di qualità straordinaria. È il vino dell’amore che Lui ci ha donato, e che non può più mancare.
Noi, da allora, quando celebriamo l’incontro con lui, celebriamo le nozze tra lui e la comunità cristiana. Cristo è il vino nuovo, e, da morto, risorgerà alla vita per donarla a tutti. È il segno dell’amore che Dio rivolge a tutti noi e della gioia che comporta la comunione con lui.
Siamo tutti quanti invitati al banchetto di nozze, purché facciamo la parte degli sposi. La festa nasce dalla gioia per un evento positivo accaduto realmente, perché una festa deve avere una motivazione, altrimenti è priva di senso, come molte feste a cui assistiamo quotidianamente.
Pierantonio e Davide Furfori