
Tante storie di sofferenza per i 160 profughi giunti in Italia prima di Natale
Sofferenze e abiezione, violenze e fame patite durante l’esodo dall’Africa o nei centri di detenzione libici: esperienze che lasceranno segni indelebili nel corpo e nella mente, ma che – grazie all’apertura di corridoi umanitari – sono ormai relegate nel passato per i 160 profughi che, grazie all’impegno del governo e della Cei, nei giorni che hanno preceduto il Natale sono giunti in Italia dalla Libia.
Dopo l’arrivo all’aeroporto di Pratica di Mare, il trasferimento nelle strutture delle Caritas di quindici diocesi. E l’inizio di una nuova vita. Per ognuno di loro una storia intrisa di prevaricazioni e di soprusi. Una laurea in ingegneria non è bastata a Beniam, 34 anni, per reggere l’impatto della dittatura in Eritrea, dove ha lasciato moglie e figlio di tre anni. A Treviso, accolto in una struttura della Caritas, ha potuto riabbracciare, dopo 12 anni, il fratello che vive in Svizzera, giunto appositamente in Veneto. Il suo è stato un viaggio intriso di sofferenze, in Sudan, e di prigionia, in Libia, in un centro di detenzione. Beniam parla quattro lingue e si è fatto mediatore e punto di riferimento per altri due ragazzi, accolti con lui a Treviso: Muller e Alemajou.
Arezzo è stata la destinazione di Eden, in fuga dall’Eritrea con la figlia di 5 anni. Il suo rifiuto nei confronti della dittatura l’ha proiettata lontano dalla sua Patria. Dal 1994, per alcuni anni, era stata integrata obbligatoriamente nell’esercito. Il primo approdo, dopo aver attraversato la frontiera del suo Paese d’origine, è stato il Sudan, dove è rimasta, per alcune settimane, in un campo profughi. Quindi, il viaggio per la Libia, pagando cinquemila dollari ai trafficanti per poi subire sofferenze fisiche e la mancanza di igiene, di cure e di cibo. Era riuscita anche a partire per l’Italia, assieme alla figlia, a bordo di un barcone. Il motore, però, si è guastato poco dopo le prime miglia. In Eritrea, ad Asmara, sono rimasti gli altri due figli col nonno anziano e povero. Ma, adesso, il paradiso sognato da Eden è l’abbraccio del marito, che vorrebbe raggiungere in Svezia.
Un obiettivo, quello del ricongiungimento, condiviso da molti profughi. Gli abusi fisici sono il dato comune per le donne. Ashe, etiope, poco più di vent’anni: le violenze e le ferite impresse sul suo fisico dai trafficanti l’hanno proiettata in un modo ‘altro’, sprofondandola in un disagio mentale che le ha fatto perdere di vista il senso della realtà. Bahta, invece, è arrivata a Teggiano con i denti rotti, segno delle percosse ricevute dai diversi sfruttatori. Yordanos, 28 anni e un figlio, ha raccontato a chi l’ha accolta, a San Remo, di “essere stata venduta e comprata per quattro volte, finché non è arrivata la liberazione e l’affidamento all’Unhcr”. Altre quattro donne eritree sono mamme. Tutte giovanissime, tra i 23 e i 25 anni. Per loro saranno avviati percorsi di assistenza psicologica; si presume che le violenze siano state compiute nei centri di detenzione libici.