
La denuncia della condotta dei generali nella Grande Guerra. Lo scrittore perse il fratello Enrico, una morte di cui soffrì molto anche l’amico al Liceo e al fronte, il pontremolese Gian Carlo Dosi Delfini.

Nella vita di Carlo Emilio Gadda il 25 ottobre è sempre stato l’inizio di un prolungato periodo di lutto che ogni volta lo gettava nello sconforto e nel cattivo umore. Tornavano a farsi vivi i fantasmi della tragedia di Caporetto, della cattura e della prigionia nei campi tedeschi. Lo studente di ingegneria, volontario nel 5° Alpini, era convinto che la guerra potesse essere il farmaco di cui l’Italia aveva bisogno per curare le sue debolezze e per completare il processo di unificazione con la conquista delle terre di Nord-Est. Una medicina capace di guarire anche le ferite personali aperte dalla morte del padre e le inquietudini provocate da una sensibilità problematica.
Caporetto segnò la fine delle illusioni giovanili e dei sogni di gloria. Il Giornale di guerra e di prigionia registra le tappe di questo percorso dall’agosto 1915 a tutto il 1919.
Gadda parla di sé, della propria malattia, ma soprattutto si dimostra lucido nell’osservazione della realtà e nel giudizio. Non solo mette a nudo i difetti del proprio carattere, ma è spietato nel denunciare incompetenza e presunzione di giovani promossi senza merito, carrierismo, egoismo di imboscati e profittatori. Dubita inoltre delle capacità di chi ha le leve del comando (Cavaciocchi, un asino: Cadorna, professore di tattica, ma senza le qualità dello stratega).
Lo spettacolo di quotidiana indecenza suscita disgusto e rabbia. Il Giornale, pubblicato solo nel 1965, può essere letto in contrapposizione con gli atti della Commissione d’inchiesta istituita subito dopo Caporetto, in quanto offre una rappresentazione della guerra in presa diretta. Un racconto in forma di diario e dunque non manipolato.
Se la Commissione aveva attenuato le responsabilità di Cadorna, il capo con l’ossessione del potere assoluto, o addirittura aveva ignorato le gravi colpe di Badoglio, cui in gran parte si deve la disfatta di Caporetto, il Giornale di Gadda punta il dito contro gli ufficiali che se ne stanno lontani dalle trincee, contro i pancioni che lasciano i soldati nel fango senza calzature decenti, contro comandanti che danno ordini insensati e non si preoccupano del morale dei soldati.
Aspetti, questi, lungamente ignorati anche nei libri di storia. Quella di Gadda è invece scrittura di verità che demolisce le versioni ufficiali. La frusta dell’ingegnere colpisce l’asineria dei generaloni che è causa di ogni male e premessa della peggiore disorganizzazione.
Il Diario di Caporetto, con nomi importanti sotto accusa, rimarrà inedito fino al 1991. Un aspetto toccante del Giornale riguarda il rapporto con il fratello minore Enrico, anche lui volontario, pilota dell’Aeronautica, deceduto in un incidente negli ultimi mesi di guerra.
La vita di Enrico Gadda sembra quasi ispirarsi al dannunziano vivere inimitabile. Carlo e Enrico Gadda: due caratteri e due destini molto diversi. Enrico aveva frequentato il liceo Parini. Qui era nata la forte amicizia con il pontremolese Gian Carlo Dosi Delfini: dei due amici, compagni di studi e di avventure, rimane un prezioso corpus di lettere. Allo scoppio della guerra Enrico e Gian Carlo si ritrovano insieme nello stesso battaglione alpini che Enrico lascerà per entrare nell’Aeronautica. Nel Giornale i pensieri premurosi di Carlo sono sempre per Enrico. Dopo la prigionia, quando Carlo viene a sapere della sua morte, ne soffre terribilmente. Scrive nell’ultimo taccuino “tu eri la parte migliore di me stesso”. Forse intendeva dire: ammiravo in te quello che io non riuscivo a essere. (Pierangelo Lecchini)
Una legge per “riabilitare” i soldati fucilati: la proposta, approvata alla Camera nel 2015, è ferma in Senato con il rischio di essere stravolta o dimenticata
Si intitola “La riabilitazione del personale militare condannato alla pena di morte durante la prima guerra mondiale” ed è la proposta di legge approvata dalla Camera dei Deputati il 21 maggio 2015, nei giorni del centenario dell’entrata in guerra dell’Italia.
Ma da tempo la legge si è “arenata” in Senato e, visti i tempi che corrono e l’imminente fine della legislatura parlamentare, il rischio concreto è che l’iter di approvazione sia più lungo della guerra che si combattè un secolo fa o, addirittura, che il testo venga modificato. Di che cosa si tratti è chiaro fin dalla premessa: “nel corso della prima guerra mondiale numerose furono le fucilazioni disposte nei confronti di militari italiani. Varie erano le ragioni e le procedure della sanzione capitale. La bibliografia più accreditata ha individuato tre distinte categorie: fucilazioni per sentenze emanate da tribunali militari, […]; fucilazioni costituenti esecuzioni sommarie […]; fucilazioni eseguite con il metodo della decimazione”.
Dagli atti dell’Ufficio Disciplina del Ministero della Guerra risultano circa 3.000 condanne a morte emanate dai tribunali militari tra il 24 maggio 1915 e il 4 novembre 1918: di queste circa 750 furono eseguite. Una relazione del 1919 fissa in circa 300 le fucilazioni sommarie eseguite senza processo. Non si conosce invece il numero di quanti vennero giustiziati con il metodo della “decimazione” che i comandanti praticarono al fronte. Furono dunque ben più di mille i soldati italiani uccisi in zona di guerra, accusati – molto spesso ingiustamente – di reati durante il servizio, di disobbedienza, rivolta, ammutinamento e insubordinazione, diserzione. Un numero molto alto: con un anno di guerra in più in Francia si contarno circa 700 sentenze eseguite, in Gran Bretagna circa 300.
Utile la lettura degli atti del dibattito parlamentare del 2015 disponibili sul sito internet della Camera dei Deputati con la citazione di casi che oggi appaiono incredibili, come quello dei soldati giustiziati nonostante al momento dei fatti contestati non fossero ancora in servizio in quel reparto. “Non posso andare a cercare chi c’era e chi non c’era. Sarà Dio a giudicare” rispose un comandante al soldato che chiedeva spiegazioni per essere stato messo di fronte al plotone di esecuzione.
Eppure, anche se può sembrare il minimo “sindacale”, la proposta ferma da tempo in Senato potrebbe anche non diventare mai legge dello Stato a meno di essere stravolta. Un anno fa, infatti, la Commissione Difesa di Palazzo Madama ha espresso un parere secondo il quale ai soldati italiani fucilati non è opportuno concedere la “riabilitazione” ma soltanto il “perdono”: in questo modo resterebbero iscritti nel libro del disonore, come codardi, disfattisti, traditori, disertori ecc. Con la riabilitazione, invece – oltre a vedere estinte almeno le pene accessorie comuni e militari e ogni effetto penale delle sentenze – i nomi di quei soldati verrebbero inseriti nell’Albo d’Oro per le onoranze ai Caduti. I
noltre la Repubblica Italiana, con una targa da apporre sul Vittoriano, renderebbe “evidente la sua volontà di chiedere il perdono di questi nostri caduti”.
Una consolazione davvero magra che però potrebbe perfino sfumare; si capisce bene, infatti, come sarebbero stravolti il senso e gli effetti dell’iniziativa: eliminando la “riabilitazione” il nostro Paese anziché chiedere perdono diventerebbe il soggetto che, dopo un secolo, perdonerebbe quegli oltre mille soldati fucilati per fatti ai quali, in maggioranza, erano del tutto estranei e a seguito di accuse infondate. Insomma un pasticcio al quale si può ancora rimediare nei prossimi mesi.