La disfatta di Caporetto, snodo  della storia d’Italia

Cento anni fa, il 24 ottobre 1917, l’offensiva austrotedesca sul fronte orientale della Grande Guerra: in due settimane di combattimenti 40.000 tra morti e feriti e un esercito in fuga verso il Piave. In un saggio di Luca Falsini (“Processo a Caporetto”, Donzelli) i lavori della Commissione d’inchiesta.

CaporettoSulle cause della disfatta di Caporetto doveva provvedere la Commissione d’inchiesta nominata il 12 gennaio 1918, i cui risultati furono pubblicati, dopo 241 sedute, nel 1919. L’offensiva austrotedesca del 24 ottobre 1917 aveva avuto effetti drammatici.
Più delle parole sono eloquenti i numeri. In 15 giorni si contarono 11.000 morti e 30.000 feriti, 300.000 prigionieri, 350.000 uomini in fuga e quasi altrettanti sbandati. Con l’arretramento del fronte di 150 km l’Italia lasciò al nemico 20.000 kmq di territorio e più di un milione di abitanti. Incalcolabile la quantità di mitragliatrici e cannoni rimasti in mano nemica. Il dramma umano è impressionante. Fu sciopero di soldati senza valore (comunicato Cadorna), oppure ebbe influsso devastante la tendenza al disfattismo rinvigorito dalle notizie dalla Russia? Il IV corpo d’armata (Cavaciocchi) e il XXVII (Badoglio) non erano stati in grado di fermare l’incursione, che travolse anche il VII corpo (Bongioanni).

Luigi Cadorna, capo di stato maggiore generale negli anni della Prima Guerra Mondiale
Luigi Cadorna, capo di stato maggiore generale negli anni della Prima Guerra Mondiale

La Commissione indagò sulle responsabilità militari e politiche, ma molti punti rimasero da chiarire. Dai generali arrivarono mezze verità per difendere il proprio operato. La colpa era sempre di altri. Deplorevole la tendenza ad autoassolversi e ancor più ad individuare un capro espiatorio. Il saggio di Luca Falsini, Processo a Caporetto (Donzelli) esamina i lavori della Commissione sulla base dei documenti inediti dell’archivio di Fulvio Zugaro, segretario della stessa. Qui si trovano copie dei verbali e delle deposizioni, le bozze da cui uscirà la relazione finale e soprattutto gli appunti e le annotazioni del segretario. Ne esce un quadro desolante di vizi forse universali, ma che in Italia attecchiscono con facilità. Si fece di tutto per giustificare l’operato del generalissimo Cadorna e per occultare le gravi responsabilità di Badoglio che inspiegabilmente non aprì il fuoco contro il nemico mentre risaliva l’Isonzo da Tolmino verso Caporetto. La ricostruzione storica di Falsini esamina argomenti troppo a lungo rimasti in secondo piano: i difficili rapporti fra il Comando supremo e i governi: quelli problematici fra autorità militari e istituzioni civili: il potere quasi assoluto concesso al capo dell’esercito. Cadorna, con forte autoritarismo, non ammetteva critiche alle sue decisioni e soprattutto alla strategia degli attacchi frontali che avevano un enorme costo umano. La politica degli esoneri e degli avanzamenti, non sempre giustificati, era strumento di minaccia e di controllo: spesso capi anziani erano sostituiti da giovani ufficiali, più docili ma inesperti. Si può capire come la preoccupazione per i quadri superiori fosse quella della carriera e come si preferisse tacere per non esporsi a inevitabili ritorsioni. In una situazione così deteriorata, con ufficiali spesso lontani dalle trincee, il morale della truppa era stimato di poco conto.
Caporetto1Si ricorreva sempre alla costrizione. Questa, oltre all’incompetenza di troppi comandanti, è la mancanza più grave. Una delle cause di Caporetto fu proprio la stanchezza di soldati costretti a turni massacranti in trincea, dove rimanevano a lungo nel fango e nella sporcizia, fra cadaveri in decomposizione o vicino a compagni feriti a morte. La mancanza di una strategia di difesa e di ripiegamento provocò una confusione enorme di uomini in fuga, abbandonati a se stessi, sbandati, ma non tutti traditori e disertori, come il comunicato del 28 ottobre voleva far credere. Più della disfatta fu vergognoso il tentativo di scaricare la responsabilità su intere compagnie di soldati accusati di viltà e di scarso valore. Ci furono senz’altro i farabutti, troppi, ma ai veri eroi molte testimonianze ascoltate dalla Commissione hanno reso giustizia. Falsini fa pure riferimento al mondo cattolico in un panorama di posizioni contrastanti. Si va dai padri Gemelli e Semeria, molto vicini a Cadorna, a cappellani in cui i soldati, costretti a tacere e combattere, trovavano possibilità di ascolto, a parroci che, nelle zone di confine, si dichiaravano apertamente per l’Austria. Senza dimenticare la Nota Pontificia dell’agosto 1917 (“inutile strage”) che qualcuno interpretò in chiave pacifista come un invito a gettare le armi. La situazione non era facile per i cattolici rimproverati di alimentare il disfattismo. Dopo la ritirata sul Piave, sotto il comando di Diaz, l’esercito italiano seppe riscattarsi dando prova di quel valore che era stato messo in dubbio. Ma Caporetto, scrive Falsini, accelerò il processo di repressione, di controllo delle masse e di riformismo sociale, che il fascismo farà proprio. Per questo Caporetto non va dimenticata, perché è “un passaggio imprescindibile per ogni riflessione sulla nostra storia contemporanea”. (Pierangelo Lecchini)

Storia e memoria di una disfatta: nella ricerca dello storico Nicola Labanca la figura di Armano Ricci Armani

Il centenario dello sfondamento del fronte presso Caporetto (24 ottobre 1917) ha impegnato gli storici in nuove ricerche. Nicola Labanca fa uscire dal Mulino un saggio costruito riflettendo su un secolo di pubblicazioni e un’infinità di carte dell’Archivio Ufficio Storico Stato Maggiore dell’Esercito. Le cause delle sfacelo sono tante. Non si può spiegare la disfatta in larga parte del fronte accusando i soldati “vilmente ritiratisi” (Cadorna) e i presunti avversari interni della guerra: socialisti, cattolici, liberali neutralisti. Caporetto “fu il naufragio della guerra cadorniana”, a causa della divisione tra gli stati maggiori e il Capo, la mancanza di munizioni, armi, cavalli e muli per i trasporti, ma soprattutto per la stanchezza dei soldati: dopo tre anni di guerra il logorio era massimo, mancavano truppe per grandi attacchi, dietro la prima linea non c’era la riserva strategica preparata e armata per il ricambio, nell’orrore della trincea i turni sempre più lunghi e brevi i riposi. “La guerra stessa era la causa dello sfacelo”. “Caporetto spiega l’evoluzione della guerra dall’intervento fino alla fine vittoriosa e illumina importanti tratti generali della storia d’Italia”. Fra i generali ascoltati dalla Commissione d’inchiesta anche il pontremolese Armano Ricci Armani dell’VIII corpo d’armata. Il libro riporta la sua dichiarazione che la scarsa combattività riguardava solo poche unità, poche erano state le diserzioni vere e proprie: cadornista ma non troppo! (m.l.s.)