Le riforme sull’occupazione non hanno funzionato
Tre indizi fanno prova, diceva Agata Christie. Applicando il detto della giallista britannica all’economia italiana, la prova che le tanto invocate riforme degli ultimi anni non hanno funzionato si basa su tre indizi rinvenibili nei dati sull’economia italiana che, pur mostrando qualche segno “più”, fa fatica a uscire dalla crisi.
Gli ultimi dati di Inps e Commissione Ue dipingono un’Italia che non aggancia la ripresa Il Jobs Act non ha portato lavoro stabile: quando c’è crescita i posti di lavoro restano precari.
Il debito pubblico italiano nel 2017 salirà al 133,1% del Pil, dal 132,6% del 2016 complici anche i 20 miliardi di sostegno pubblico al sistema bancario per scongiurarne il fallimento
Primo indizio: le previsioni di crescita economica per il 2017 e il 2018 pubblicate dalla Commissione Europea sono le meno rosee di tutta l’Unione: mentre per l’Europa intera nel 2017 è previsto un aumento del Pil pari all’1,8%, per l’Italia la crescita sarà solo dell’1,1%. Le riforme “strutturali” fino a qui implementate, da quella previdenziale a quelle sul lavoro, dalle privatizzazioni di ciò che era ancora vendibile agli incentivi alle imprese, evidentemente non sono state quelle necessarie.
Secondo indizio: sempre la Commissione Europea certifica che il debito pubblico italiano nel 2017 salirà al 133,1% del Pil, dal 132,6% del 2016. Questo è dovuto, dice la Commissione, “anche alle risorse aggiuntive stanziate per il sostegno pubblico al settore bancario”: 20 miliardi di nuovo debito per scongiurare il crack di un sistema bancario che fa acqua da più parti. C’è però da osservare che i tassi di interesse al minimo storico, i contestati (da Berlino) acquisti di titoli da parte della BCE e la riduzione dello spread hanno consentito, rispetto al 2012, un risparmio cumulato di 47,5 miliardi di euro sugli interessi sul debito. L’occasione era quella di impiegare questo“bonus Draghi” per ridurre il debito stesso. Al contrario, i minori interessi hanno finanziato “bonus Renzi” e mance varie ad impatto zero sull’economia.
E le diseguaglianze crescono
“Alla fine del lungo periodo di crisi”, afferma l’Istat verso la fine del Rapporto annuale 2016, “la diseguaglianza è aumentata nella maggior parte dei Paesi europei. Le difficili condizioni dell’economia hanno influito in particolare sui livelli di diseguaglianza (lavoro e capitale)”. È la conferma che quando l’economia stenta le diseguaglianze crescono; al contrario, quando viaggia dà respiro. Allo stesso modo, l’indice di concentrazione della ricchezza è mediamente più alto nelle regioni più povere che non in quelle più ricche perché non si redistribuisce la ricchezza se si arretra. Dice ancora, l’Istat, che “solo l’intensificarsi dell’azione redistributiva pubblica ha mitigato l’incremento della diseguaglianza dei redditi disponibili”, ma subito rimarca che “la capacità redistributiva dell’intervento pubblico è in Italia tra le più basse in Europa”.
Terzo indizio: i dati Inps sul mercato del lavoro. Il Jobs Act avrebbe dovuto agevolare l’impiego di lavoro delle aziende, una volta liberate dai divieti di licenziamento e di demansionamento dei lavoratori. Sarebbe dovuta quindi aumentare l’occupazione stabile e con essa il clima di fiducia e i consumi. I nuovi contratti a tempo indeterminato (cosidetti “a tutele crescenti” ma privi del reintegro in caso di licenziamento illegittimo) nel primo trimestre 2017 sono stati 17.500. Erano 215mila nel primo trimestre 2015, quando tali contratti erano incentivati dalla decontribuzione, e 41mila nel primo trimestre 2016, quando la decontribuzione fu ridotta. Insomma: cessati gli incentivi (costo totale 19 miliardi di euro a favore delle imprese) le assunzioni “stabili” sono tornate quasi a zero. Se c’è crescita, questa genera posti di lavoro precari. E, nel frattempo, sembra che i lavoratori si siano improvvisamente messi a comportarsi male: salgono a oltre 18mila (+14,4%) i licenziamenti disciplinari.
Tre indizi fanno la prova, dicevamo: l’avere insistito sullo stimolare il lato dell’offerta del sistema economico seguendo le teorie economiche liberiste e cercando di corroborarle con spinte decisioniste che emarginassero i corpi intermedi e persino il Parlamento, ha dato risultati inesistenti. Se negli ultimi tre anni un poco di crescita vi è stata, è facile individuarne le cause, comuni a tutta Europa: svalutazione dell’euro (le esportazioni hanno ripreso ad essere positive); bassi costi dei prodotti energetici importati; tassi di interesse decisi dalla BCE ai minimi di sempre (nonostante i quali, in Italia, gli investimenti sono crollati).
Di suo, l’Italia ha provato ad aggiungere riforme interne che evidentemente non hanno prodotto risultati apprezzabili. Di fronte all’evidenza, chiedere, come molti osservatori fanno, riforme ancora più “audaci” – che nessuno esplicita ma che sono il taglio del costo del lavoro, l’abolizione dei contratti di lavoro nazionali e la riduzione della spesa pubblica – significa volere proseguire su un sentiero che porta sul ciglio di un burrone.
(Davide Tondani)