Le notizie false (fake news) sono il nuovo spettro che si aggira per il mondo. Al punto da fare invocare a molti, a gran voce, provvedimenti legislativi e sanzioni penali a tutela della vera informazione. Nell’ultimo decennio il salto di qualità delle “bufale” è stato favorito dall’espansione di internet e in particolare dei social network: da quando a chiunque è diventato possibile produrre e divulgare informazione a costi praticamente nulli, il potere di raccontare i fatti (in maniera veritiera o menzognera) è passato da un numero circoscritto di fonti professionali ad un universo potenzialmente illimitato e incontrollabile di produttori di notizie. Questi, talvolta, tramite l’utilizzo accorto del web e delle tecniche di comunicazione, sono capaci di ampliare in maniera “virale” il numero dei fruitori, al punto che la notizia diventa vera a prescindere dall’attendibilità del contenuto. È questo elemento che ha rotto l’equilibrio consolidato del mondo dell’informazione: l’allargamento smisurato di quanti decidono cosa è meritevole di diventare notizia.
Il fatto che questa tendenza sia coincisa con l’ascesa e il successo dei partiti e dei leader antisistema – Trump su tutti, accusato di avere vinto le elezioni grazie alle false notizie sui suoi avversari veicolate su Facebook – non ha fatto che irrobustire questa tesi. In realtà Trump, Grillo o Le Pen si affermano per ragioni economiche, storiche, politiche e sociali, prima che per la diffusione di bufale sui social network. Le notizie false e la cattiva informazione sono sempre esistiti, fin da quando l’alfabetizzazione era privilegio di pochi eruditi. Ancora in tempi recenti, la seconda guerra del Golfo, causa prima del terrorismo Daesh che sta seminando morte e paura in tutta Europa, è stata giustificata da una “bufala” ben veicolata dai mass media più autorevoli del mondo: la detenzione da parte del regime di Saddam Hussein di armi di distruzione di massa.
È innegabile che il web possa essere utilizzato per favorire un clima di rabbia, ma non è che i canali tv tradizionali, con il loro esasperare come “emergenza” qualsiasi fatto sociale negativo e il dare spazio alle voci più viscerali, offrano un contributo migliore alla percezione della realtà, se è vero che in Italia la popolazione immigrata reale è il 7% del totale mentre quella percepita dai cittadini, secondo un’indagine Ipsos, è del 30. Chiedere a Facebook di fare da arbitro alle notizie che gli utenti postano, censurando quelle non vere, o legiferare per distinguere le opinioni ammissibili da quelle considerate diffamatorie, non solo rappresenta un pericoloso salto nel buio sul piano delle libertà individuali, uno scivolamento verso l’orwelliano Ministero della Verità, ma appare anche come un maldestro tentativo di accreditare i media tradizionali, la cui maggiore autorevolezza è tutta da dimostrare, come unici dispensatori di un’informazione accurata e di qualità. I
n realtà sta al lettore discernere, con un approfondimento ragionato, e questo è un esercizio sempre più difficile da compiere, data la quantità e la velocità delle informazioni a disposizione, ma è l’unico, sia pure difettoso, strumento per dividere notizie e “bufale”.
Davide Tondani