
Anniversari – 50 anni fa l’enciclica Populorum Progressio di Paolo VI

Per molti storici è stato il decennio dell’ottimismo: gli anni ’60 sono stati gli anni del boom economico in Europa, dell’indipendenza delle colonie africane, del rinnovamento ecclesiale di Giovanni XXIII, della “nuova frontiera” di J. F. Kennedy, del progresso scientifico e della “conquista” della Luna. Certo, non mancavano segni opposti: la crisi di Cuba, la corsa atomica di Francia e Cina, il Vietnam, la “primavera di Praga” repressa dai carri armati di Mosca. Ma l’orizzonte intravisto era quello del benessere senza limiti, del progresso. Almeno per quel che si poteva osservare da uno dei due blocchi in cui il mondo era diviso: quello occidentale. Una narrazione, come la chiameremmo oggi, interrotta e contraddetta da Paolo VI con la pubblicazione, il 26 marzo 1967, dell’enciclica sociale Populorum Progressio.
Fu quel documento ad anticipare di un paio di decenni la reale divisione del mondo: non quella Est-Ovest, che il Papa tentava di colmare inaugurando la “Ostpolitik”, ma quella tra “i popoli della fame” del Sud del mondo che “interpellano oggi in maniera drammatica i popoli dell’opulenza” del Nord. Per Papa Montini, la Chiesa “trasale davanti a questo grido d’angoscia”. “Essere affrancati dalla miseria, garantire in maniera più sicura la propria sussistenza, la salute, un’occupazione stabile; una partecipazione più piena alle responsabilità, al di fuori da ogni oppressione, […] ecco l’aspirazione degli uomini di oggi, mentre un gran numero d’essi è condannato a vivere in condizioni che rendono illusorio tale legittimo desiderio” ammoniva Paolo VI.
Nell’enciclica compaiono le esplicite accuse al colonialismo di avere agito solo nel proprio interesse, le condanne degli abusi del possesso e del potere che generano “strutture oppressive”. Il Papa ricorda che “la proprietà privata non costituisce per alcuno un diritto incondizionato e assoluto” e critica “il profitto come motore essenziale del progresso economico, la concorrenza come legge suprema dell’economia”, così come una “mistica esagerata del lavoro”.
L’economia deve essere al servizio dell’uomo, tesi condensata in una frase che presto diventerà l’arco di volta dell’intera enciclica: “lo sviluppo è il nuovo nome della pace”. Uno sviluppo che non è solo economico, ma “integrale”, come si evince dalla prima parte dell’enciclica e come riemerge, decenni dopo, nella Laudato si’ di Francesco: segno evidente che Paolo VI ha marcato in maniera molto profonda il suo modo di concepire la questione della giustizia. Le assonanze tra Paolo VI e Francesco non sono coincidenze, ma concetti legati da un filo conduttore: negli anni ’60 il problema ecologico non era in primo piano, ma oggi che la sensibilità ambientale si è fatta più acuta, Bergoglio la declina in funzione dello sviluppo integrale della persona umana, che deve coinvolgere tutte le sue dimensioni e, in particolare, nel nostro tempo, la responsabilità verso il Creato.
Del resto, Populorum Progressio e Laudato si’ condividono pure la stessa immeritata sorte, l’essere cioè oggetto di critiche talvolta feroci da parte dei circoli economici conservatori e di ambienti capitalistici. Papa Montini apostrofato come “marxista”, così come lo è oggi Bergoglio. Quanti, dopo la pubblicazione dell’enciclica, anche da dentro la Chiesa, accusarono Paolo VI di tradire la civiltà occidentale di fronte alla guerra fredda osando testimoniare che la vera cortina di ferro era quella Nord-Sud, sono gli stessi che oggi accusano il primo Vescovo di Roma del Sud del mondo di tradire i valori dell’occidente cristiano promuovendo la misericordia di una Chiesa in uscita verso le periferie, anziché la fermezza dottrinale che faccia da scudo in una presunta guerra di civiltà. Nulla di nuovo sotto il sole a 50 anni da quell’enciclica che Benedetto XVI non esitò a definire “la Rerum Novarum dei tempi moderni”.
(Davide Tondani)