
Pontremoli: a 40 anni dalla morte di Bruno Necchi
“Tutto non morrà, anche se questa forsennata e crudele civiltà faccia talvolta temere di essere volta a travolgere quei valori che hanno sostenuto l’esistenza di molte generazioni. Io mi rifiuto caparbiamente di crederlo: penso piuttosto che i nostri figli o i figli dei nostri figli, un giorno, sperduti nel turbinio di una civiltà convulsa ed essa stessa smarrita, non possano fare a meno di tornare sui loro passi, per frugare nel passato in cerca di una luce, di una parola, di una fede che li illumini e dia loro nuova speranza nella vita. Sarà quello il giorno in cui ritroveranno i loro padri e non potranno più ridere di loro.” (Da: “Puntremal ‘na vota”)

Il 7 febbraio di quarant’anni fa muore Bruno Necchi (1913-1977), al termine di un’esistenza intensamente vissuta dedicata alla famiglia, al lavoro, ai doveri di cittadino, lasciando nella cronaca e nella piccola storia della Lunigiana testimonianza del suo tempo e dei valori in cui ha creduto.
Di formazione cattolica, si diploma maestro, professione che abbraccerà con dedizione per tutta la vita. All’irrompere della guerra viene inviato sul fronte dei Balcani e non riesce a concludere i suoi studi a Ca’ Foscari. Dopo l’8 settembre ’43 partecipa alla Resistenza in Montenegro e nel 1945 è decorato con la Medaglia di bronzo al Valor Militare sul Campo. Ritornato in patria, riprende la sua professione e non si allontanerà più da Pontremoli, dove si prodiga con passione nell’impegno politico per la ricostruzione della democrazia.
Nel primo dopoguerra, nasce la sua amicizia, favorita da una affinità elettiva ideale e politica, con il maggiore inglese Gordon Lett, pluridecorato e cittadino onorario di Pontremoli, comandante del reparto partigiano “Battaglione Internazionale” che aveva operato nel nostro Appennino dopo l’8 settembre.
La partecipazione di Bruno Necchi alle vicende della sua città lo conduce a collaborare con vari settimanali locali; coinvolgente e duratura la sua collaborazione con “Il Corriere Apuano”, sul quale cura in modo continuativo articoli e rubriche firmate con lo pseudonimo di Pasquin (“La s-mana a Puntremal vista da Pasquin”, siglata dalle ironiche caricature di Giuseppe Brunero) e pure talvolta stravaganti cronache sportive che firma ‘Pasquin sportivo’.
Più tardi collabora con i quotidiani “La Nazione”, “II Tirreno” e “La Gazzetta di Parma”. Dagli articoli pubblicati sul Corriere Apuano, riveduti e integrati con altre storie tratte da vicende e figure note della quotidianità pontremolese, vede la luce il suo primo libro, “La Crësa” (Artigianelli, Pontremoli 1957; Mori, Massa 2013), che restituisce il mondo di Bruno Necchi attraverso racconti dipinti con vivacità e immediatezza in quell’idioma così personale, che nasce dall’incontro-scontro della parlata popolare pontremolese con l’italiano “imposto” dalla scuola.
La lingua di Pasquin, che già era comparsa sui giornali, raggiunge qui la sua compiutezza di espressione e di significato e prosegue con identità di accenti nel successivo “Puntremal ‘na vota” (Artigianelli, Pontremoli 1971). Lo sfondo dei racconti è Pontremoli ma potrebbe essere altro luogo in Lunigiana. Terra di passaggio e di emigranti, Pontremoli si presta a trasmutarsi in “luogo dello spirito”, così come avviene per altri autori più conosciuti, a partire da Giovannino Guareschi.
E questi luoghi e paesaggi, oggi solo da pochi riconosciuti e ricordati, non appaiono sfondo fermo ed estraneo, ma atmosfera, presenza, perfino proiezione della immaginazione dei personaggi che vi si muovono. “Macchiette” le chiama Pasquin: una scusabile bugìa, della quale sono responsabili il ritegno ed il pudore che lo caratterizzano. Esse sono sì descritte con ironia ed umorismo – è il sorriso di Pasquin pieno di amore per gli uomini, con la sua fiducia di fondo nella loro buona umanità – ma ciò serve ad esorcizzare una malinconia dell’esistenza che comunque talvolta affiora.
In verità Pasquin ci consegna queste figure perché le custodiamo come persone, perché ad ognuna di esse la sorte ha legato il suo filo. Ci riconosciamo via via: amori e paure, rivalità, speranze, delusioni, affanni, invidie, stupori, vanità, gioie…
Non manca nei libri di Bruno Necchi la categoria del tempo, sia quello circolare, con il giro delle stagioni, consuetudini e tradizioni spesso liete e rassicuranti, sia quello lineare, che accompagna e sospinge i personaggi, neutrale ma forse non indifferente. Tante storie sono pervase dalla presenza vivida degli animali: l’amore nei loro confronti affiora più distintamente nei libri per ragazzi, scritti in lingua italiana: “Cinque birbe e… un barboncino” (Artigianelli, Pontremoli 1966), avventure di un gruppo di giovanissimi amici in un luogo imprecisato, ma che ricorda tante caratteristiche della sua Pontremoli, e il romanzo “Stellino – Storia di un povero cane” (La Benedettina, Parma 1981) dove una bestiola assurge a tormentato protagonista, pubblicato postumo dalla famiglia. Per alcuni è questo il suo testamento spirituale, con una conclusiva e sofferta professione di fiducia negli uomini.