
Dal dialogo si può giungere a superare i comportamenti devianti dei giovani.
La maggioranza di loro nei propri ambienti di vita adotta comportamenti positivi e costruttivi
L’universo giovanile è tornato agli onori della cronaca italiana. A far guadagnare agli adolescenti titoli di prima pagina, articoli e pure qualche libro, sono stati recenti casi di violenza nelle scuole da parte di alunni o loro genitori. Non certo i primi nella storia della scuola italiana e con tutta probabilità nemmeno gli ultimi.
Episodi tuttavia utili a fare accendere le luci sul tema come i mass media sanno fare: stare per qualche settimana sull’argomento, fare ascolti e quando questi calano passare a nuove “emergenze”.
Tutto senza mai esplorare i temi nella loro complessità. Così, argomenti come il bullismo o il rapporto con i docenti – temi delle ultime settimane – hanno generato un profluvio di articoli, statistiche, luoghi comuni, polemiche senza che nessuno abbia pensato di ascoltare la voce dei protagonisti: gli adolescenti italiani.
Una condizione, quella della solitudine, non nuova per i giovani di oggi, sempre giudicati, ma non ascoltati da nessuno. Ascoltandoli, potrebbero dirci che la maggioranza di loro ogni giorno nei propri ambienti di vita adotta comportamenti positivi e costruttivi, coltiva e pratica ideali o valori da tempo dimenticati da chi parla sopra di loro. Potrebbero dirci che il mondo adulto non ha le carte in regola per giudicare e condannare la violenza, la prevaricazione, l’effimero o il vuoto che emergono da alcune frange giovanili di tutte le classi sociali o tipologie di scuola.
Al dialogo si preferisce uno sbrigativo ed autoassolutorio confronto con il rispetto dell’autorità vigente in altri tempi: il tipico atteggiamento di tanti che a 18 anni giocavano alla rivoluzione, contestando l’autorità, e a 50 vestono i panni della reazione che tanto deprecavano. Alla fine, al fianco dei giovani senza giudicarli a priori è rimasta la Chiesa, che ad essi, al loro discernimento, ai loro progetti, sta dedicando una lunga campagna di ascolto in vista del Sinodo dei Vescovi di ottobre. E a parlare di emergenza educativa, oltre un decennio fa, quando la violenza sui social network e il cyber-bullismo erano ancora parole sconosciute, era la Conferenza Episcopale Italiana.
Oggi l’emergenza educativa è tema inflazionato. E la scuola viene coinvolta, da un lato, in qualità di imputato perché superficialmente si giudicano i docenti non più in grado di essere guide dotate di autorità, dall’altro perché si delega solo ad essa il compito di invertire la rotta. La proposta di insegnare educazione alla cittadinanza in tutte le scuole è stata lanciata come se due decenni di tagli all’istruzione non fossero mai esistiti (infatti educazione civica già si insegnava) e come se la perdita di autorevolezza dei docenti non dipendesse dal discredito montato contro di loro. L’educazione delle giovani generazioni, però, non dipende solo dalla scuola, ma dal lavoro sinergico di altre “agenzie educative”: la famiglia e le comunità in cui essi sono inseriti.
L’alleanza educativa tra questi attori è da tempo saltata: le violenze dei genitori – non solo quelle fisiche – sui docenti o da dietro le reti dei campi sportivi lo dimostrano quotidianamente. Attribuire alla sola scuola (ovviamente a costo zero) il compito di ristabilire i giusti valori di cittadinanza è un’effimera scorciatoia: anche il sistema scolastico migliore e più motivato nulla può costruire senza una solido patto educativo alle spalle. Non solo: è anche un elegante disimpegno per famiglie, politica e società: l’onere di educare sia demandato ad altri.
Una società che ha fatto dell’edonismo uno dei suoi totem ha ben presente che pretendere, punire, ascoltare, essere autorevoli e coerenti è una fatica che sottrae spazio ad altri obiettivi: il successo, il reddito, il vivere bene. Educare costa. Dei ragazzi, sempre più soli, se ne occupi qualcun altro.
(Davide Tondani)