Nazionalismi, protezionismo e mercato del lavoro

06lavoro_robotSarà un protezionismo figlio dei risorgenti nazionalismi a provocare le guerre di domani? O al contrario a generare un malcontento sociale capace di alimentare nuove tensioni nazionali ed internazionali sarà, paradossalmente, quel libero mercato che nella teoria economica accomuna i popoli sotto la bandiera della reciproca convenienza degli scambi?
Alla base delle teorie che propugnano vantaggi per tutti all’interno di un libero commercio internazionale, c’è la teoria del vantaggio comparato espressa da David Ricardo già all’inizio del XIX secolo: paesi diversi per condizioni naturali e sociali produrranno lo stesso bene a costi diversi; se due paesi possono commerciare tra di loro, ogni paese potrà specializzarsi nella produzione del bene che produce a minor costo, scambiandolo con il bene prodotto dall’altro paese. Ciò permetterà a ciascuno dei due paesi di consumare una maggiore quantità di beni. Dunque, eliminare protezionismo e le barriere doganali e favorire gli scambi internazionali genera benessere.
06lavoro_industriaUna predizione, quella di Ricardo, che tuttavia si avvera fin quando al commercio internazionale partecipano paesi con salari, condizioni di lavoro e dotazioni di capitale simili.
Se però al commercio internazionale partecipano anche paesi meno avanzati e con livelli salariali più bassi, cosa accade? Gli studi di Paul Samuelson, Filip Heckscher e Bertil Ohlin, a metà del secolo scorso, hanno anticipato a livello teorico ciò che si è effettivamente realizzato: quando sul commercio internazionale si affacciano paesi con salari bassi, nelle economie avanzate come quelle europee o nord americane i salari dei lavoratori meno qualificati si abbassano.
06lavoro_assemblaggioÈ quello che è accaduto quando i “Brics” (Brasile, Russia, India, Cina, Sud Africa), grazie alla riduzione delle distanze dovuta alla globalizzazione, si sono integrati nel commercio internazionale. Dunque, l’apertura del commercio internazionale non genera solo vincitori, ma anche, come contropartita, sconfitti.
È stato così, ad esempio, negli Stati Uniti dopo l’entrata in vigore, nel 1994, del Nafta, il trattato di libero scambio con Canada e Messico. Le pulsioni populiste che hanno portato alla vittoria di Donald Trump, nel 2016, tra le fasce operaie della popolazione, sono a dimostrarlo, come l’aumento del consenso verso le formazioni di estrema destra tra le fasce popolari in Europa.
Ad amplificare i costi per gli sconfitti e i vantaggi per i vincitori del commercio globale, determinando la crescita delle disuguaglianze, contribuiscono inoltre il processo di liberalizzazione dei flussi finanziari e l’unificazione delle norme di produzione dei beni e dei servizi, che pur non avendo effetti provati sugli scambi commerciali, mette a repentaglio interi settori economici (si pensi alle produzioni alimentari tipiche) e genera vantaggi solo per grandi e influenti gruppi multinazionali.

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Come ha fatto notare l’economista statunitense Dani Rodrick in un illuminante articolo tradotto di recente dal settimanale Internazionale, non è solo il commercio a generare il deterioramento del mercato del lavoro e quindi delle condizioni di vita dei ceti popolari, ma anche altri fattori, come il progresso tecnologico.
Il tema del commercio però consente alla politica di non proporre soluzioni e di incolpare di tutto gli stranieri: sia a livello sociale (l’immigrazione) che a livello economico (l’euro, per fare un esempio che riguarda il dibattito in Italia) e politico (la Germania, l’Ue).
In queste condizioni, politiche di protezionismo potrebbero avere un significato diverso dall’atteggiamento di sfida geopolitica mostrata da Trump con i suoi recenti annunci o dalla stupidità autarchica di mussoliniana memoria. Sulla scena del commercio mondiale si sono affacciati negli ultimi decenni attori che si fanno largo praticando scientemente un dumping sociale estremo: negando diritti e libertà fondamentali dei lavoratori e delle comunità, erogando salari che irridono la dignità, pregiudicando la preservazione di un bene comune universale come l’ambiente.
Di fronte a ciò, per i paesi avanzati da un punto di vista economico e democratico si pongono due strade: proseguire, sostenuti dalla ristretta élite dei vincitori della globalizzazione, in un processo di libero scambio non regolato oppure applicare dazi anti dumping sociale per evitare le conseguenze imprevedibili di un malcontento sempre più preoccupante tra le classi popolari.

(Davide Tondani)