Ad una rinnovata attenzione alla vita delle valli appenniniche e delle zone rurali hanno fatto seguito risultati deludenti
L’attenzione della politica per la vita nelle valli appenniniche e alpine o nei territori rurali sta vivendo una stagione nuova; da una decina d’anni si è ripreso a discutere di come favorire la vita ed evitare l’emigrazione da zone dapprima considerate marginali rispetto alle città in cui l’industrializzazione trainava il boom economico italiano, poi impoverite di servizi pubblici e sociali in nome dell’efficienza della spesa pubblica.
In quelle che sono state definite con qualche ambiguità lessicale “aree interne” vivono oggi 14 milioni di persone in oltre 4 mila comuni che si trovano distanti dai grandi centri metropolitani o da aree urbane di rilevante consistenza demografica.
Si tratta di territori dei quali si enfatizza la disponibilità elevata di importanti risorse ambientali (idriche, sistemi agricoli, foreste, paesaggi naturali e umani) e risorse culturali (beni archeologici, insediamenti storici, abbazie, piccoli musei), ma caratterizzate dalla difficoltà di raggiungere servizi essenziali come salute e istruzione e da opportunità occupazionali ridotte.
Per tentare un rilancio i territori periferici, nel 2013 fu avviata a livello governativo la Strategia nazionale per le aree interne (Snai), pensata per arginare lo spopolamento con nuove politiche territoriali capaci di ridare slancio allo sviluppo dei luoghi remoti del Paese, valorizzandone le opportunità e mettendo in campo tutti gli strumenti possibili per rimuovere gli ostacoli che negli ultimi decenni hanno rappresentato il primo “nemico” delle aree interne.
L’obiettivo è quello di contrastare da una parte lo spopolamento e dall’altra favorire il nascere di nuove opportunità economiche. La Snai ha individuato 124 aree di intervento, con oltre 1.900 Comuni (in gran parte sotto i 5mila abitanti) che occupano quasi i due terzi del territorio italiano e in cui vivono 4,6 milioni di abitanti.
Anche la Lunigiana è censita come un’area interna di 12 comuni (sono esclusi Aulla e, curiosamente, Tresana), così come l’Alta val di Vara, la Garfagnana e un numero ampio di comuni dell’alto Appennino parmense e reggiano.
La Strategia nazionale per le aree interne aveva individuato 124 aree di intervento, con oltre 1.900 comuni che occupano quasi i due terzi del territorio italiano e in cui vivono 4,6 milioni di abitanti. Troppo spesso la retorica sulla qualità della vita nei borghi fa i conti con i tagli ai servizi essenziali e l’assenza di opportunità occupazionali
Nonostante i tanti annunci, i decreti, i risultati della Strategia per ora sono deludenti. A dirlo non sono solo i dati – abbiamo già scritto come per esempio la Lunigiana abbia perso altri 4 mila abitanti in 10 anni – ma anche i convegni che radunano gli addetti ai lavori. Di oltre 800 milioni di euro messi a disposizione tra il 2014 e il 2021, ne sono stati spesi meno di 40. La causa principale: una governance dei fondi assai farraginosa e uffici dei piccoli comuni privi delle competenze per progettare gli interventi e realizzarli.
Niente di sorprendente dopo anni di tagli e di assenza di investimenti sulla Pubblica Amministrazione. A fine 2026 si vedrà se avranno avuto miglior sorte gli 1,3 miliardi messi a disposizione delle aree interne dal Pnrr per infrastrutture sociali, sanità e strade, ma i campanelli d’allarme sulla capacità dei comuni di accedere alle risorse e spenderle sono suonati più volte.
Nel frattempo si è sviluppata in questi anni la retorica dei “borghi”, cioè del patrimonio di natura, cultura, tradizioni, custodito nei paesi e nei paesaggi rurali e montani, dove può essere vissuta una vita diversa da quella frenetica e spersonalizzante delle aree metropolitane.
Una narrazione edulcorata e bucolica idonea a muovere il mercato delle seconde case e il settore edilizio, ma ben lontana dal creare sviluppo. Non è salvando costruzioni vissute qualche weekend e tre settimane in estate che si salva la vita e l’identità di una comunità che quotidianamente fa i conti con le fatiche di un pendolarismo lavorativo e scolastico sempre più difficile e costoso e con i tagli ai servizi pubblici primari che hanno continuato ad operare di pari passo alle promesse di non lasciare indietro le zone periferiche.
Per ripopolare le aree interne è necessario attrarre investimenti mirati alla creazione di occupazione, rifuggendo la logica anacronistica (e nemmeno così risolutiva, come hanno dimostrato tanti casi in passato) del “fare venire una grande fabbrica”, ma operando per favorire attività compatibili con il territorio; è necessario prevedere una fiscalità di vantaggio per le aree interne (le “zone economiche speciali”), con premialità o sgravi per le imprese che assumono, anche over 35 vista la maggiore anzianità della popolazione del territorio; è necessario, di fronte alla crisi del commercio, che nelle aree periferiche assume contorni drammatici, ridurre il carico fiscale e burocratico per evitare la perdita di servizi che hanno una forte valenza sociale e che non possono conseguire gli stessi volumi d’affari di attività nei centri urbani.
Servono infine amministrazioni locali capaci di fare sistema mettendo da parte campanilismi e personalismi. Non si tratta, come molti propongono, di accorpare forzatamente i piccoli comuni, ma di spingere sindaci e amministratori ad avere una comune visione di lungo periodo da perseguire.
(Davide Tondani)