Nasceva cento anni fa alle Grazie di Portovenere. Visse tra Roma e il Piemonte dove lavorò nel reparto pubblicitario dell’Olivetti
Panorama del borgo e del golfo delle Grazie
Nacque cento anni fa alle Grazie nel Comune di Portovenere Giovanni Giudici (1924-2011) da famiglia piccolo borghese segnata da lutti, fu unico figlio superstite, quattro fratelli morirono appena nati e ben presto perse la madre. Ha abitato anche i luoghi dell’altra sponda alla Serra di Lerici.
Di educazione cattolica approdò a posizioni marxiste testimoniate anche come assessore alla cultura nella giunta provinciale e già era stato consigliere al Comune della Spezia, cittadino onorario della città capoluogo e anche di Lerici e Sarzana. Tensioni nell’animo gli venivano nel sentirsi tra due “chiese”, cattolica e socialista, che poterono convivere nella poesia, che è voce dell’uomo.
Giovanni Giudici
La famiglia si trasferì a Roma per il lavoro impiegatizio del padre, qui il giovane poeta si laureò in lettere nel 1945, aveva già fatto la scelta della militanza antifascista, renitente al bando di leva Graziani fu attivo nel Partito d’Azione.
L’ambiente romano fu vivace stimolo alla sua passione per la poesia e per la cultura; scelse un impiego all’USIS, il servizio americano di informazioni che gli procurò buona padronanza della lingua inglese, collaborava a riviste e fu giornalista dell’Espresso, in seguito anche del Tirreno, Corriere della sera, Il Secolo XIX.
Un nuovo impiego fu all’Olivetti di Ivrea, intanto rivolgeva forte attenzione alla poesia inglese (l’amato Eliot) e americana e russa, di questa lo affascinava il suggestivo ritmo dello stile e arrivò all’impresa quasi “folle” di tradurre in versi italiani poesie e Evgenij Onegin di Puškin.
Industria e letteratura: poeti e intellettuali in fabbrica.
Il progetto di Adriano Olivetti
Giovanni Giudici negli anni Sessanta è con molti altri voce attiva nella discussione sul ruolo degli intellettuali, sulla loro funzione nella società. Elio Vittorini, scrittore importante del Neorealismo, nel 1945 nell’editoriale del primo numero del Politecnico aveva detto che serviva una cultura che sapesse evitare il male anziché portare consolazione. Giudici nella sua riflessione critica mette in discussione la società nella sua cultura e la condizione sociale del poeta, interpretato come uno che è decaduto da una posizione di privilegio, frustato e alienato, uomo nella città, varca i cancelli della fabbrica nel momento del “miracolo” economico.
Adriano Olivetti
L’intellettuale è diventato un salariato, il poeta va al lavoro, i versi sono legati con le occasioni dell’esistenza. Sulla rivista Il Menabò Giudici scrive di “Industria e letteratura”, è assunto nell’azienda Olivetti ad Ivrea e collabora con Adriano Olivetti, l’imprenditore che ebbe ferma convinzione che intellettuali e letterati fossero necessari anche in fabbrica per favorirne uno sviluppo equilibrato contro gli esasperati tecnicismi, se non proprio di catena di montaggio alla maniera del film “Tempi moderni” di Chaplin.
Cercò di fare la sua azienda, che era in forte espansione producendo macchine da scrivere e i primi computer, un ambiene che proponeva anche arte e cultura.
Con Leonardo Sinisgalli, Franco Fortini, Tiziano Terzani e altri intellettuali si occupò della biblioteca dell’azienda e del settimanale Comunità di fabbrica e anche del giornale La via del Piemonte, creato da Olivetti per dare forza al Movimento di Comunità in vista delle elezioni politiche del 1958, però non vinse e il giornale fu chiuso.
A Milano diresse pubblicità e stampa della Olivetti e ritrovò un intenso impegno poetico e un forte interesse per la cultura politica in un momento di grande vitalità della cultura milanese. Ma l’aspirazione ad una condizione umana meno precaria e sfuggente andò sempre delusa, e nel poeta, traduttore e saggista spezzino, anche in Autobiologia, persiste una “rassegnata descrizione del quotidiano mediocre tempo presente” con una trama della vita che dà frustrazione e perdita.
Nell’orizzonte politico del Sessantotto si aggregò ai fondatori della rivista della nuova sinistra Quaderni piacentini dai toni di spregiudicata indipendenza. Collaborò alla rivista Rinascita e intanto strinse rapporto diretto col mondo slavo che lasciò tracce importanti nelle sue successive poesie e seguì poi con trepidazione il precipitare dell’esperienza della Primavera di Praga per l’intervento armato sovietico, che stroncò la speranza accesa dal progetto di Dubĉek di “un comunismo dal volto umano”.
Giudici si allontanò progressivamente dalle linee dominanti del marxismo e si immerse nella ricerca di vitalità ritmica con rigoroso lavorio sulla parola.
Tanti i riconoscimenti ricevuti, prestigioso quello dell’Accademia dei Lincei. I versi della vita è il titolo che raccoglie i vari libri di poesia nel Meridiano. In tutta l’opera Giudici come altri ha coscienza della mediocrità del presente nel privato e nel pubblico, resa in una dimensione stilistica di realismo antilirico con immagini e parole prese dalla realtà quotidiana con taglio molto critico e reso problematico.
La nevrosi contemporanea accende il desiderio di benessere intimo, ma questo subito si rivela non raggiungibile, corroso subito da autoironia, Una sera come tante, e nuovamente noi qui, chissà per quanto ancora… qui dove il male è facile e inarrivabile il bene.
È nostalgia di futuro che mi estenua. Il grido nel vuoto del futuro entra dentro le frustrazioni del mondo moderno, che isola l’uomo in una immobile solitudine.
Si perdono valori essenziali di amore, bene, felicità, amicizia solidale. Ce li fa cercare la poesia, che fa ascoltare le voci dell’anima, è “strumento dell’uomo per l’uomo”, dà valore ad ogni istante e libera dalla banalità, se mettiamo in costante discussione noi stessi (forse).