Ultimo padre conciliare italiano a cedere all’inesorabile scorrere del tempo (è morto il 16 luglio scorso a 99 anni). Da vescovo di Ivrea a presidente di Pax Christi: una vita spesa per la pace, la giustizia e il dialogo senza pregiudizi
Appare difficile comprendere come il luogo-simbolo di un grande comunicatore del Vangelo, una personalità carismatica ed estroversa, che qualcuno non ha esitato a definire piena di sé, sia una catacomba.
È infatti nelle catacombe di Domitilla a Roma che, il 16 novembre 1965, pochi giorni prima della conclusione del Cocilio Vaticano II, un gruppo di vescovi di tutto il mondo, guidati dal brasiliano Hélder Câmara, “illuminati sulle mancanze della nostra vita di povertà secondo il Vangelo”, si impegnavano in 12 punti per una “Chiesa serva e povera”.
Luigi Bettazzi – di cui omettiamo i titoli ecclesiastici in linea con la clausola di quello che fu definito il “Patto delle Catacombe”, che prevedeva il rifiuto “di essere chiamati con nomi e titoli che significano grandezza e potere” – era tra questi, unico italiano.
Al tempo Bettazzi era il giovane vescovo ausiliario di Bologna. Nato nel 1923 a Treviso, fu nella città felsinea che divenne prete, nel 1946. Chiamato al fianco del Cardinale Lercaro, prese parte al Concilio prima come suo assistente, poi come vescovo, dopo l’ordinazione nel 1963.
Nel 1966 la nomina a vescovo di Ivrea, dove rimase fino al compimento dei 75 anni. Quel patto ha guidato costantemente la missione di Bettazzi: i temi della giustizia e della carità “e delle loro mutue relazioni” – che conducevano all’argomento della pace, della laicità, della riforma della Chiesa e del suo rapporto con il mondo – furono la cifra della sua attività intellettuale e cristiana fino al termine della sua lunghissima vita.
Il Concilio, di cui ormai era rimasto uno dei pochi protagonisti ancora viventi, lo vide attivo assieme al gruppo bolognese di Lercaro e dei suoi periti: don Giuseppe Dossetti e Giuseppe Alberigo. L’impronta lasciata del giovane presule nell’assise vaticana riguardò i temi della collegialità episcopale, il documento sui laici Apostolicam Actuositatem e la costituzione pastorale sul mondo contemporaneo, la Gaudium et spes.
Entrambi i temi – corresponsabilità laicale e rapporto con il mondo – rappresentarono per Bettazzi due stelle polari del suo agire, sia nel corso del lungo governo pastorale della diocesi di Ivrea (1966 – 1999), che nei 17 anni trascorsi alla guida di Pax Christi (1968-1985).
Nella diocesi piemontese Bettazzi si spese con la sua vicinanza ai lavoratori dell’Olivetti, della Lancia, del cotonificio Vallesusa: la globalizzazione e i grandi mutamenti di fine anni ’70 investirono il suo territorio interpellando la coscienza di una comunità cristiana che non voleva considerare le questioni sociali come qualcosa di estraneo, mentre i temi della pace e del disarmo interrogavano la Chiesa che con Giovanni XXIII aveva rimesso in discussione la sua teologia sulla guerra.
L’impegno per la causa della non violenza, durante la lunga presidenza di Pax Christi, gli valse il premio internazionale dell’Unesco per l’educazione alla pace. Insieme a don Tonino Bello, suo amico fraterno e successore nell’associazione pacifista cristiana, marciò a Sarajevo nel dicembre 1992 assieme ad una delegazione di pacifisti laici e credenti che chiedevano pace nei Balcani. Il dialogo con il mondo contemporaneo che Bettazzi promosse fu senza confini e pregiudizi.
Fece scalpore nel 1976 il suo carteggio con Enrico Berlinguer, segretario del Partito Comunista Italiano. Lo scambio epistolare ebbe come temi il rapporto tra la fede cattolica e l’ideologia marxista ma soprattutto il valore della laicità.
“Mi sembra legittimo e doveroso – scriveva il vescovo – aprirsi al dialogo, interessandosi in qualche modo perché si realizzi la giustizia e cresca una più autentica solidarietà tra gli uomini. Il ‘Vangelo’, che il vescovo è chiamato ad annunciare, non costituisce un’alternativa, tanto meno una contrapposizione alla ‘liberazione’ dell’uomo, ma ne dovrebbe costituire l’ispirazione e l’anima”.
Trent’anni dopo, oramai emerito, ma non per questo a riposo – Bettazzi ha continuato il suo apostolato in modo attivo fino a pochi mesi dalla morte – si dichiarò favorevole al disegno di legge del governo Prodi sui diritti e doveri delle persone stabilmente conviventi, comprese le coppie omosessuali, mentre i vertici dell’episcopato italiano si spesero graniticamente contro la proposta.
Del resto, la forte personalità e l’autonomia di pensiero di Bettazzi all’interno del tessuto ecclesiale italiano furono una sua costante.
È facile immaginare quanto ciò gli abbia precluso la nomina a capo di diocesi più importanti e a ruoli di maggiore preminenza; molto più difficile dire quanto le divergenze con il resto della gerarchia ecclesiale lo abbiano turbato.
Forse poco: “Era libero perché amava Dio e la Chiesa”, ha scritto nel messaggio inviato al vescovo di Ivrea, mons. Edoardo Aldo Cerrato, in occasione dei funerali, il cardinale Zuppi, arcivescovo di Bologna, città in cui Bettazzi si formò.
“Cercava il dialogo – ha proseguito il cardinale – non perché ambiguo, facile, ma proprio perché convinto della propria identità, senza ossessioni difensive che vedono il nemico dove non c’è e non lo riconoscono dove, invece, si annida”.
Dette dal presidente della Cei, sono parole che restituiscono il giusto merito ad un protagonista della Chiesa italiana di questi decenni, visto da tanti cattolici con sospetto ma che di se stesso amava dire, ancora fedele a quella promessa espressa nelle Catacombe di Domitilla: “La gioia più grande? Essere prete”.
Davide Tondani