Una politica sociale in attesa  di risposte dal governo

Il presidente del Consiglio, Mario Draghi, alle prese con i partiti della maggioranza e con i sindacati divisi davanti allo sciopero generale

Il presidente Draghi alla Conferenza nazionale sulla disabilità del 13 dicembre

Uno sciopero contro i partiti della maggioranza, piuttosto che contro il governo: è questa la giustificazione data da Maurizio Landini e Pierpaolo Bombardieri, segretari generali di Cgil e Uil, allo sciopero indetto per il 16 dicembre, quando questo numero del nostro settimanale sarà già andato in stampa. Una motivazione inedita nella storia delle relazioni sindacali in Italia, ma che solo in apparenza sembra un arrampicarsi sugli specchi. Sebbene il governo stia facendo un larghissimo uso dei voti di fiducia per fare procedere i suoi provvedimenti, il Presidente del Consiglio sui nodi più divisivi della politica economica sta adottando atteggiamenti temporeggiatori.
Nel caso dei disegni di legge sulla concorrenza o sulla riforma del Catasto ha preferito rimandare i contenuti che più creavano malcontento. Nel caso della riforma fiscale, ha presentato un progetto di legge delega molto generico sulla ripartizione del carico tributario. Da ultimo, sulla riduzione delle imposte per il 2022, cioè il casus belli dello sciopero, si è limitato a stanziare 8 miliardi lasciando al Parlamento, quindi ai partiti, senza alcun indirizzo politico, il compito di distribuire gli sgravi.

Il presidente del Consiglio dei Ministri, Mario Draghi

Le scelte distributive operate dai partiti sono state giudicate inique da Cgil e Uil, che hanno chiesto a Draghi un confronto ulteriore, che non ha avuto esito positivo. Anche perché parallelamente, Draghi, trovandosi ad affrontare l’emergenza del caro bollette, ha proposto di congelare la riduzione Irpef per i redditi sopra i 75 mila euro per finanziare futuri aiuti al pagamento delle utenze delle famiglie meno abbienti ricevendo un secco rifiuto di Italia Viva, Lega e Forza Italia. In altre parole, in un vertice di maggioranza il Capo del governo è stato messo in minoranza dai partiti che lo sostengono su un provvedimento di primo piano.
Nella “Prima Repubblica”, un qualsiasi Presidente del Consiglio avrebbe richiesto una verifica di maggioranza o sarebbe passato direttamente alle dimissioni. Questa volta non è accaduto. Meglio così. Ma parlare di sciopero contro i partiti non solo non è sbagliato, ma alimenta pure una domanda già posta poco più di un mese fa sul nostro settimanale: perché, paradossalmente, un capo del governo nelle condizioni ottimali per esercitare in modo pieno il ruolo che la Costituzione gli assegna, cioè guidare la politica generale del governo, sceglie di sottostare ai veti incrociati tra partiti?
Le risposte possono essere ricondotte all’obiettivo di Draghi di non scontentare nessuno, o in vista di una sua candidatura a Presidente della Repubblica, o per consentire al governo di durare fino al 2023 e continuare a garantire la Commissione Europea su debito pubblico e uso dei fondi del Pnrr.
Le prossime settimane daranno una risposta a questi interrogativi. Il sindacato confederale, Cisl compresa, non esita, da mesi, a sottolineare le emergenze della situazione economico-sociale del Paese: la disoccupazione permane alta e riguarda soprattutto donne e giovani; licenziamenti collettivi e crisi aziendali si moltiplicano; le nuove assunzioni avvengono in larghissima parte con contratti a termine; in interi settori economici – la logistica e l’agroalimentare, per esempio – si susseguono notizie di cronaca che svelano condizioni di sfruttamento difficili da accettare; i salari reali italiani sono gli unici in Europa ad essere diminuiti negli ultimi 30 anni; la pandemia ha portato i poveri assoluti da 4,6 a 5,6 milioni mentre c’è chi chiede l’abolizione del reddito di cittadinanza.
Il tema delle disuguaglianze (di genere, di reddito, territoriali) racchiude tutti questi problemi, su cui dal governo non sono arrivate molte risposte. Al primo vero banco di prova, quello della rimodulazione dell’Irpef, i partiti della maggioranza hanno mostrato uno scarso interesse per la questione: l’85% dei lavoratori italiani, quelli con redditi inferiori a 28 mila euro, avranno riduzioni di imposta limitatissime, mentre sconti molto più consistenti andranno al 15% con redditi più alti.
Può tutto ciò giustificare uno sciopero generale? Fin dalla sua nascita, ogni forma di critica al governo Draghi è censurata con fastidio e argomentazioni pretestuose. Con insistenza gli opinion-maker di ogni orientamento paventano scenari apocalittici di fronte ad ogni perplessità sull’azione di Draghi, arrivando talvolta a grottesche operazioni di santificazione che rendono quasi caricaturale una figura di alto profilo internazionale come quella del Presidente del Consiglio.
Per questo lo sciopero generale è stato bersagliato da una tempesta di critiche, alcune velate anche di venature classiste che nascondono l’incapacità della classe dirigente italiana di saper leggere nel profondo la società e le tensioni che la percorrono, salvo poi stupirsi davanti al voto per i partiti antisistema o all’astensionismo dilagante. Ma riportando il dibattito sui normali binari della dialettica democratica, l’opportunità in questa fase politica e sociale di indire uno sciopero generale sconta diverse argomentazioni, sia favorevoli, sia contrarie: i sindacati confederali, che vanno divisi alla mobilitazione, ne hanno offerte una vasta gamma.
Alla fine, in un contesto in cui scioperare è ancora un diritto e non un reato di lesa maestà, la risposta finale la daranno non gli opinionisti della stampa ma il numero di lavoratori che sceglieranno di astenersi dal lavoro.

(Davide Tondani)