Gesù svela

Domenica 27 giugno – XIII del tempo ordinario
(Sap 1,13-15; 2,23-24 – 2Cor 8,7.9.13-15 – Mc 5,21-43)

Poi un giorno non ci credi più. O forse, molto più semplicemente, ti accorgi che già da tempo non ci credevi più. E ti scopri vecchio e un po’ morto dentro. A battaglia ancora non terminata, a corsa non ancora conclusa, hai perso la fede nell’uomo e nelle cose della vita. Sembra tutto uguale, insignificante, tutto destinato a morire, in qualche modo tutto già morto. E se anche il libro della Sapienza si ostina a dire che la morte non è stata creata da Dio a te non importa da dove viene questo nulla che si mangia la vita, a te interessa solo sapere che c’è e che si è già portata via la parte migliore. Le cose che esistono non sono più “portatrici di salvezza”, come insiste a dire il Libro, ma fonte di preoccupazione, di dolore, di frustrazione o, peggio, di noia. Gli occhi si fanno pesanti, prima bruciano perché vorrebbero piangere e poi più nulla, si chiudono. Basterebbe un attimo di lucidità, un lampo di consapevolezza, un fiato di grazia residua per accorgersi di una cosa, dell’unica cosa che ci è successa durante il nostro mestiere di vivere: “la morte è entrata nel mondo e ne fanno esperienza coloro che le appartengono”, abbiamo lasciato alla morte di prendersi la nostra storia.
La fine inizia quando cediamo alla seduzione della morte, quando cadiamo nelle sue mani. Una morte che entra nel mondo per “l’invidia del diavolo”. “Invidia” significa “guardar male” e diavolo “il divisore”. E allora capiamo dove ci sta portando il libro della Sapienza, ad avere consapevolezza che la nostra vita ha bisogno di occhi non invidiosi, di occhi capaci di guardarci con compassione, con benevolenza, questa è l’unica “giustizia”. La vita rimane “giusta” fino a quando uno sguardo compassionevole e non invidioso ci sostiene.
C’è un modo giusto di essere guardati e Gesù lo sa. Ed è quello che chiede a chi vuole parlare davvero di lui. Noi saremo salvati soltanto da occhi che sanno vedere in noi quello che ancora noi non vediamo. Noi saremo salvati da occhi che sanno suscitare in noi lo stupore per quello che già siamo, ci uccidono gli occhi invidiosi, ci uccidono gli occhi che separano ciò che siamo da ciò che gli altri pretendono di vedere in noi. Gesù nel Vangelo. In mezzo a una folla ingombrante e ignorante che passa dal piangere al ridere con scandalosa immediatezza, nel cuore di una folla che, come tutte le folle, è massa che toglie il respiro e la poesia e la speranza Gesù entra, non si lascia soffocare, taglia a metà, danza e svela l’uomo. Svela che l’uomo si scopre giusto solo quando si lascia salvare da uno sguardo: Gesù guarda la donna che perde sangue. Ha occhi e cuore per l’uomo trafitto dal dolore per la perdita della figlia.
Gesù danza e svela il peso della tenerezza. Gesù rimane vivo perché in mezzo a quella folla cerca e valorizza una carezza. Che è l’esatto opposto di chi si appesantisce di pretese. Una carezza si accontenta di sfiorare senza trattenere, senza possedere, senza manipolare. Gesù svela che l’uomo è bello quando diventa preghiera e chiede aiuto (il capo della sinagoga), quando si mostra per quello che è “impaurito e tremante” (la donna affetta da emorragia).

don Alessandro Deho’