La peste nera del 1348  narrata dal Boccaccio

La malattia nelle parole dei poeti e degli storici. A Firenze quell’epidemia nel “pestilenzioso tempo” fece oltre centomila vittime.

Il Trionfo della Morte. Palermo, Galleria regionale di Palazzo Abatellis
Il Trionfo della Morte. Palermo, Galleria regionale di Palazzo Abatellis

Sono tante le pagine letterarie che esprimono la realtà drammatica delle malattie epidemiche (circoscritte) o pandemiche (in tutto il popolo del mondo abitato, l’ecumene). Le più intense le abbiamo studiate a scuola: la peste di Atene del 430 a.C. descritta con la precisione analitica di un moderno referto clinico dallo storico Tucidide e da Lucrezio nei versi finali del suo sublime poema sulla natura: vacillavano tutte le barriere della vita, in un muto sgomento.
Virgilio cantò una terribile epidemia di animali nel Nordest d’Italia, altra peste famosa colpì il mondo bizantino nel VI sec. citata anche nelle Memorie storiche della città di Pontremoli di Bernardino Campi. Boccaccio, Manzoni, Marques, Camus e altri hanno espresso in modo mirabile i comportamenti umani nel tormento delle emergenze epidemiche.
Si cita spesso ma è poco analizzata nei percorsi scolastici l’ampia introduzione di Giovanni Boccaccio alla prima Giornata del suo Decameron. Il capolavoro della novellistica italiana fu composto dal grande scrittore di Certaldo subito dopo la terribile peste del 1348, che uccise un terzo della popolazione europea e portò miseria.
Nell’ansiosa angoscia in cui ci ha fatto precipitare la pandemia Covid 19 è un buon consiglio leggerla per intero. Qui diamo un semplice contributo dei suoi contenuti per chi non potesse leggerla. Boccaccio ci confida di aver sofferto molto per amore eccessivo a una donna (Fiammetta, che fu costretto a lasciare a Napoli dopo la crisi finanziaria del padre), “passò la pena ma non la memoria” grazie all’aiuto confortevole di amici.
Vuole ricambiare il bene ricevuto e dedica la sua opera a chi ne ha più bisogno e pensa alle donne perché vivono pene d’amore che tengono nascoste ai maschi di famiglia che le costringono a contratti nuziali di interesse e quasi mai di amore. Soffrono nel chiuso delle loro stanze, si annoiano, invece i maschi hanno molti svaghi fuori casa. Per dilettarle dedica loro le sue cento novelle nella cornice delle Dieci Giornate (Decameron in greco) narrate nel “pestilenzioso tempo” perché ne abbiano diletto e sollievo e per imparare come vivere, una volta uscite dalle sofferenze.

Una illustrazione del Decameron
Una illustrazione del Decameron

Dall’Oriente arrivò la malattia. Chi manda la peste? Gli influssi delle stelle o le nostre inique opere punite da giusta opera di Dio? La domanda non ha risposta razionale, rimangono le ipotesi in conformità alla cultura dell’epoca. Nessun rimedio al contagio, non furono efficaci i provvedimenti presi di purgare dalle immondizie Firenze che ebbe oltre centomila vittime, la chiusura, le raccomandazioni igieniche, neppure preghiere e processioni. Fu peste bubbonica, all’inguine o sotto le ascelle comparivano gonfiature nere dette gavoccioli che nel giro di pochi giorni portavano a morte, colpiva anche gli animali, fu molto contagiosa.
Boccaccio osserva attentamente con doloroso stupore lo sconvolgimento etico e sociale provocato dal flagello: gli animi si indurirono, i malati rimasero abbandonati, lo spavento era tale che i familiari e gli stessi genitori non curavano i figli “quasi loro non fossero”.
Persero autorità le leggi umane e divine, regnava confusione e ognuno faceva quel che voleva. C’era chi con uno stile di vita sobrio si rinchiudeva in casa pensando solo a se stesso, chi si dava a soddisfare ogni appetito che si potesse raggiungere negando o beffandosi del morbo. Altri tenevano una via di mezzo di prudente equilibrio, alcuni abbandonavano le case e le attività per rifugiarsi in campagna, ma la peste arrivava ovunque e si ritrovarono abbandonati.
Non rimaneva che la carità di qualche raro amico o “l’avarizia dei serventi” che per grossi salari davano una minima assistenza. Le donne inferme non provavano imbarazzo a farsi curare a corpo nudo da uomini e le superstiti adottarono poi comportamenti meno onesti.
Boccaccio ci dice che nelle situazioni gravi le persone migliorano o peggiorano i loro costumi di vita. Non si facevano più i funerali, niente compianto, solo una decina di persone, mancavano anche le bare in cui a volte venivano deposte più salme e si arrivò alle fosse comuni. In città come in campagna era una gran desolazione di palazzi vuoti, terre non coltivate, animali randagi.
Ma il Decameron è un libro che vuol dare conforto: si passa a rivelarne la cornice. Sette donne amiche o parenti, nobili, belle e virtuose e tre giovani decidono di ritirarsi in un luogo ameno del contado dove onestamente prendere “festa, allegrezza, piacere” narrando novelle: dieci narratori in dieci giornate. I congiunti o sono morti o non si curano di loro, non fanno offesa a nessuno se mirano ad “aiutare e conservare e difendere” la propria vita.

Maria Luisa Simoncelli