Il valore delle parole

07libroLe parole non sono neutre, né lasciano mai le cose come stanno. “Non nascono a tavolino, nei salotti buoni di Circoli chiusi e autoreferenziali, ha detto Papa Francesco, anzi esse danno voce a valori culturali e spirituali radicati nella memoria collettiva di un popolo, a cui restituiscono nuovo vigore. La loro fecondità è legata ad una condivisione della vita. É proporzionata alla disponibilità con cui accettiamo di lasciarci interrogare e coinvolgere dalla realtà, dalle situazioni e dalle storie delle persone.
Vivere le parole significa superare sospetti, paure e chiusure per assumere il coraggio liberante dell’incontro. É un cammino che richiede di saper riscoprire il primato del silenzio che facilita il pensare e la riflessione”. Questo e molto altro afferma il Santo Padre nella prefazione del libro “Vivere le parole” di mons. Nunzio Galantino. Oggi sicuramente moltiplichiamo le chiacchiere a danno delle parole. Blateriamo in modo, sovente, superficiale lasciandoci trasportare dall’onda del chiacchiericcio scadente, purtroppo, nello sterile pettegolume, ai danni di persone di cui non conosciamo né vissuti, né storie: liete o tristi. Il vocabolario ci dice che le parole cambiano, evolvono, conquistano, feriscono occupando una parte importante del nostro linguaggio quotidiano.
Un decennio fa nessuno sognava di usare comunemente termini come spread, esodati, selfie, WhatsApp, fake news, altro neologismo inglese, sinonimo delle mitiche frottole di una volta. Certo i social, accanto ai tanti vantaggi portati nella nostra esistenza, hanno modificato abitudini e modo di parlare e di scrivere di milioni di persone. Però, alla fine, ha ragione chi ammette che “stiamo whatsappando la nostra fragilità, le nostre solitudini, rimanendo soli ed isolati, a dispetto dei contatti.
Anche quanto a parolacce stiamo esagerando. Un popolo di sboccati, più di tre decenni fa, svettando, ahinoi, nella classifica delle scurrilità a buon mercato che non ci onora. Quadruplicate le bestemmie. Un turpiloquio che fa rabbrividire, lungi dall’essere moralisti, a scapito pure dell’esempio, della testimonianza e dell’educazione che dovremmo dare ai nostri ragazzi. Giusta allora un poco di nostalgia per le parole, piccoli capolavori della nostra bella lingua, che, come segno di rispetto, hanno conquistato, in passato, il mondo. Il più decisivo dei saluti “Addio” nasce da un’accorata espressione idiomatica “ A Dio ti raccomando”.
Sempre seguendo la legge del raddoppiamento anche il nostro “Arrivederci” è nato da un arcaico “a – rivederci”. Così come “Cordiali saluti” significano che vengono dal cuore: in latino, cor, cordis. Ma il più italiano e noto dei saluti rimane certamente “Ciao”. Termine derivante dal veneto “sciavo vostro”, in uso nel Settecento, eppoi “sciao”. Negli anni il saluto varcò i confini ed i lombardi, gente spiccia, gettarono via la “esse” iniziale ed ecco l’agile e simpatico “Ciao”, saluto cosmopolita.
Per concludere è ancora il Papa a ricordarci il valore delle parole, quindi a raccomandarci la massima attenzione a ciò che diciamo. La freschezza e la sincerità delle parole si fanno ponte per ogni incontro. A vantaggio dell’accoglienza, del dialogo, della condivisione e del rispetto vicendevole. Parliamo, dunque non solo correttamente a livello linguistico e razionale, ma anche col cuore.

Ivana Fornesi