
Il 28 agosto 1869 venivano allagate le darsene interne: l’infrastruttura voluta da Cavour poteva entrare in funzione. In pochi anni La Spezia sarebbe passata da 6mila a 36mila abitanti

L’allagamento delle darsene interne, il 28 agosto 1869, è stato il giorno simbolico del suo battesimo: l’ Arsenale Marittimo di La Spezia ha compiuto 150 anni, celebrati nelle settimane scorse in città con una serie di eventi e manifestazioni. Fu Napoleone il primo a intuire le potenzialità del Golfo a fini militari: in questa insenatura profonda 14 km su cui si affacciavano una dozzina di borgate marinare tra cui La Spezia, l’Imperatore voleva costruire un’altra Tolone, una seconda cittadella militare nel mare Ligure.
Le traiettorie della storia impediranno la realizzazione di quell’intuizione, che nel 1857, alla vigilia dell’Unità d’Italia, fu ripresa da Cavour, che affidò al generale e architetto del Genio Militare Armando Chiodo la progettazione dell’Arsenale e il sistema fortilizio alle sue spalle, a difesa degli attacchi dal mare e dall’entroterra.

Servirono 7 anni per costruire un’opera così imponente, a cui seguirono le infrastrutture necessarie a rendere la città centro strategico della Marina Militare, assieme a Taranto e Venezia: la ferrovia verso Pisa, inaugurata nel 1864, quella verso Genova realizzata 10 anni dopo, la diga foranea del 1873, la ferrovia pontremolese per collegare la piazzaforte militare di Piacenza, nel 1892.
Compito principale dell’Arsenale era quello di costruire unità navali per la Marina Militare: corazzate, incrociatori, torpediniere, cannoniere, sommergibili, furono per decenni costruiti nei cantieri spezzini e diverse di quelle imbarcazioni furono l’orgoglio della flotta italiana. Dopo le pesanti distruzioni della seconda guerra mondiale e la successiva ricostruzione divennero via via prevalenti le attività di manutenzione e trasformazione delle unità navali.

Ancora oggi l’Arsenale è la “casa” dell’Amerigo Vespucci, il veliero considerato “la nave più bella del mondo”.
Il volto di La Spezia cambiò per sempre. A testimoniarlo è la demografia: da poco meno di 6 mila abitanti nel 1861, si passò a 36 mila vent’anni dopo: a La Spezia arrivano maestranze, civili e militari da tutta Italia.
Maurizio Maggiani, scrittore di fama nazionale ma dalle solide radici spezzine, in Romanzo della Nazione (Feltrinelli, 2015) descrisse quell’esodo verso il nascente Regio Arsenale in modo brutalmente realistico: “Arrivano tutti qui e se ne vengono da ogni parte. E sia chiaro che i più vengono dalla fame e dalla sconfitta. (…) E gli ergastolani. Vengono a guadagnarsi la grazia per 10 anni di lavori forzati. Era l’occasione, la via di uscita, l’opportunità. Era la California, come in un film”.
Non è un caso se nelle celebrazioni dei 150 anni è stato scoperto un monumento della scultrice Giulia Vaccari rappresentante un civile e un militare, a simboleggiare il legame tra l’istituzione, che arrivò ad occupare 11 mila persone, e la città che grazie alla presenza militare superò negli anni ’70 i 120 mila abitanti. Un legame non facile: il poeta locale Renzo Fregoso in una sua poesia raccolta in Demóa d’amóe (Accademia di Scienze “G. Capellini”, 2002) immaginò l’Arsenale sposo di Spezia: “Se anche l’ha empita di bacini, specialmente sul seno, ebbene, ancora oggi non saprei dirvi se fu un incontro felice”.
Senz’altro non lo fu quando l’afflusso delle maestranze fece della piccola Spezia di allora una enorme baraccopoli senza acqua e fogne: nel 1884 scoppiò il colera, il Golfo intero divenne una grande quarantena e successivamente i governi del Regno finanziarono la costruzione del quartiere Umberto I per dare case e dignità alla popolazione accorsa da tutta Italia.
Gli stravolgimenti non furono solo demografici e sociali, ma riguardarono anche il rapporto uomo-territorio: le esigenze strategiche avevano la precedenza su quelle delle comunità locali; borgate di pescatori come Fabiano e Marola vennero private del loro accesso al mare, con gli alti muraglioni dell’Arsenale che inglobarono case e conventi e causarono la distruzione di chiese e cimiteri, ricostruiti altrove. La preminenza delle esigenze militari su quelle civili portò il giornalista e scrittore Gino Patroni, a definire, con buona dose di umorismo, La Spezia “periferia dell’Arsenale”.
In realtà, quella periferia andava ben oltre i confini municipali, non solo per la presenza di distaccamenti non trascurabili a Scorcetoli, ai Surrogati di Aulla o a Monti: in Lunigiana, dove la grande industria non ha mai fatto scalo, l’Arsenale e l’industria militare sorta a corollario (Oto Melara, Termomeccanica, Cantieri del Muggiano) rappresentarono nei decenni del dopoguerra l’alternativa all’emigrazione per tantissime famiglie.
Centinaia di persone raggiungevano La Spezia sugli affollatissimi treni “operai” e, una volta terminato il turno, rientravano a casa per dedicarsi all’attività agricola che coinvolgeva spesso moglie e figli e che, senza lo stipendio dell’Arsenale, non avrebbe garantito alla famiglia un reddito sufficiente: un modello economico largamente diffuso nell’Italia rurale e che aveva come protagonisti quelli che Walter Tobagi definì, con un riuscito gioco di parole, i metalmezzadri, ma che a Spezia, Val di Vara e Lunigiana continuano ancor oggi ad essere chiamati, con velenosa ironia, gli arsenalotti.
Il calo occupazionale, in corso da anni – oggi lavorano in Arsenale 800 unità tra civili e militari – è il segno evidente dei cambiamenti strategici e tecnologici dell’ultimo trentennio. Mentre Spezia cambia pelle aprendosi al turismo e ai traffici mercantili, gli 85 ettari dell’Arsenale, semi vuoti e con problemi di bonifica, ipotecano ancora lo spazio urbano senza che alcuna soluzione tra le tante prospettate, sia stata ancora percorsa.
Il futuro incerto non cancella tuttavia l’affascinante parabola di una struttura che rappresenta un storia sociale e territoriale unica ed irripetibile, quella – ancora Renzo Fregoso “… di Porta Sprugola dove si è consumato lo sposalizio della Spezia (una giovinetta acqua e sapone e panni al lavatoio) con un certo Arsenale, un tipo piuttosto grigio e un poco triste”.
Davide Tondani