

Il titolo insolitamente lungo è un invito a rivolgere il pensiero agli innocenti che “nascono derelitti”. Sono “troppi” i bambini per i quali nascere significa essere condannati all’abbandono e all’indifferenza. La poesia, forse l’ultima scritta da Giorgio Caproni (1912-1990) all’incirca un mese prima della morte, è apparsa su Famiglia cristiana (1989, n. 51) con dedica a Valerio Volpini, già direttore dell’Osservatore Romano nei giorni tragici del rapimento di A. Moro. Quella sul Natale è la voce laica di un poeta che non si adagia in una religiosità rassicurante, ma si spinge oltre “l’ultimo borgo” raggiungibile dalla ragione per cercare risposte a domande ardite e inquietanti. L’immagine della Bestia e il riferimento a Erode occupano lo spazio centrale del testo. Come in Dante (la bestia senza pace: Inf. I, 58) la fiera selvaggia si aggira sulla terra e la guasta. Figura ricorrente nella poesia di Caproni, la Bestia, ricca di mutevoli significazioni, qui può essere considerata il male che guasta, corrompe il mondo. Così pure l’Erode che abita in noi, genera il “disamore”, parola già presente nelle prime composizioni del poeta livornese. Disamore ha lo stesso prefisso di disincanto, disillusione, disarmonia e indica mancanza o perdita. “Res amissa”, forse per sempre. La condizione di fragilità dei bambini che nascono è dunque aggravata dal gelo che avvolge la terra. “Soli e indifesi” in un mondo che non è fatto per loro.

Il sorriso non li salva: non li riscalda il soffio dell’asinello e del bue. “Disamore” e “tremore” rimano a rimarcare la mancanza di calore umano. In un’altra poesia (Petit Noël) “Gesù, portami via”, è la supplica del poeta: portami via da questo Natale tradito dall’ipocrisia degli uomini. Caproni, con i suoi dubbi e le domande sulla scomparsa di Dio – morto? nascosto? fuggito? rapito?- dichiara la propria insofferenza alla dilagante banalizzazione del Natale. “Vedi…vedi…” è allora l’esortazione a chi “ardentemente” crede, vedi di chiedere “un grano di carità” per gli innocenti che, come il Bambino, nascono al freddo e al gelo. Il Natale, forse non lo sanno più nemmeno le moltitudini che per l’occasione riempiono le navate delle chiese, è tutto in quel “grano di carità”. Non nella esteriorità di strade e vetrine illuminate si trova il senso, ma in quel seme che, presi dalla frenesia di pranzi e regali, ci si dimentica di spargere “in nome del piccolo Salvatore”. Nemmeno la poesia potrà liberare la terra dalla Bestia del disamore. Il poeta ne è certo e confessa, nei due distici finali, quanto possa essere “posticcio” il suo lamento e quanto la parola poetica sia “fatuo orpello”. Affermazioni forti e decisive, che la rima aspra fra carità e viltà, rende ancora più amare nel gelo del giorno di Natale. “Gesù, portami via”.
Pierangelo Lecchini