Scritte nei 55 giorni del sequestro
Sono da poco passati i giorni della Settimana santa, i giorni dell’universalizzazione del dolore e della sofferenza. Il tempo che precede la Pasqua, alba di un giorno nuovo, non può che essere quello della riflessione dell’uomo su un orizzonte che, seppur momentaneamente, si chiude e consegna ciascun individuo sofferente alla dimensione personale del dolore, del pessimismo, della sfiducia.
In un quadro nel quale si mescolano i colori chiaroscuri della sofferenza, del dolore, della malvagità, ma anche dell’amore e degli affetti, si inserisce la vicenda tragica dell’on. Aldo Moro. “Giovedì 16 marzo un nucleo armato delle Brigate Rosse ha catturato e rinchiuso in un carcere del popolo Aldo Moro, presidente della Democrazia Cristiana…”.
È l’inizio di un calvario che si concluderà con la morte lo statista, ma quel tempo, quell’attesa inconsapevole del suo destino, è fatto di sofferenza in parte alleviata dalla scrittura di diverse lettere che ci restituiscono l’uomo politico ma soprattutto l’uomo dei cari affetti, dell’amore verso i suoi familiari, ai quali consegna non il dramma che sta vivendo, ma una serena quotidianità come se fosse ancora lì fra loro: “Spero che anche voi mi ricordiate, ma senza farne un dramma”. E poi ecco la consapevolezza di essere parte di quel dolore che accomuna gli uomini sofferenti: “Intuisco che altri siano nel dolore. Intuisco, ma non voglio spingermi oltre sulla via della disperazione”.
Le lettere di Aldo Moro ai familiari sono densissime di amore e di affetto. In esse ricorre la grande sofferenza per la brusca interruzione di un progetto di vita al centro del quale c’è l’amato nipote Luca – “il piccolo che amavo guardare e cercherò di guardare fino all’ultimo” – fonte di gioia ma nello stesso tempo anche motivo di dolore lancinante che rende la carcerazione sempre più pesante: “Questa è per me la punta più acuta di questa dolorosissima vicenda. Non vedere il piccolo e non potergli dare tutto l’amore, tutto l’aiuto, tutto il servizio che avevo progettato”.
Rivede tutta la sua vita come in un film, scorre in fretta i fotogrammi, soffermandosi su quelli che richiedono spiegazioni che di solito ciascun figlio, diventato adulto, si dà autonomamente. Moro sente il bisogno di rivelare il padre, premuroso ma anche severo, che è stato, esplicitando le ragioni del suo comportamento verso i figli: “Forse in qualche momento sarò stato nervoso o non del tutto capace di comprensione. Ma l’amore dentro è stato grande in ogni momento con un desiderio profondo della vostra felicità sempre in una vita retta, quale voi conducete”.
E più avverte la fine della vita che si avvicina, maggiormente sente il bisogno di essere unito alla sua famiglia tramite i ricordi: “Per me, è finita. Penso solo a voi e, se non sono oppresso fino alla follia, vi richiamo, vi rivedo, da grandi e da piccoli, da anziani e da giovani e tra tutti il dilettissimo Luca con cui passo ancora i momenti disponibili”.
Tutto ciò che sente e manifesta si riassume nelle parole rivolte alla moglie Eleonora, “la dolcissima Noretta”, che diventa il tramite degli affetti e dell’amore verso i familiari: “Bacia e carezza per me tutti, volto per volto, occhi per occhi, capelli per capelli. A ciascuno una mia immensa tenerezza che passa per le tue mani. Sii forte, mia dolcissima, in questa prova assurda e incomprensibile… Amore mio, sentimi sempre con te e tienmi stretto”. Moro è rassegnato, sente che la fine è imminente e a lui, credente cattolico, non resta che affidarsi a Gesù Cristo al quale sente di essere vicino nella sofferenza: “Credo di essere alla conclusione del mio calvario. Ho solo capito in questi giorni che vuol dire che bisogna aggiungere la propria sofferenza alla sofferenza di Gesù Cristo per la salvezza del mondo”. E come per Cristo il suo lascito è l’amore, ciò che rimane di tutto ciò che abbiamo messo insieme su questa terra: “Mentre lasciamo tutto resta l’amore, l’amore grande grande per te e per i nostri frutti di tanta incredibile e impossibile felicità”.
Fabrizio Rosi