Le condizioni di un nuovo  protagonismo del sindacato  nella società italiana

Lo sciopero generale del 29 novembre ha fatto emergere lo scontento del Paese per le politiche economiche del governo.
La protesta ha evidenziato anche i limiti del sindacato nella sua funzione negoziale e nella capacità di influire sulle scelte politiche.

Piazza Maggiore a Bologna il 29 novembre in occasione dello sciopero generale per il comizio di Maurizio Landini (Foto CGIL Bologna)

Lo sciopero generale di venerdì 29 novembre non ha registrato le piazze piene e i servizi paralizzati come accadeva fino ai primi anni Duemila. Esito prevedibile visti i mutamenti del mondo del lavoro e del contesto sociale: la parcellizzazione della produzione che ha preso il posto della grande fabbrica, i contratti a tempo determinato, gli interinali, i subappalti, la fine della tutela dai licenziamenti illegittimi oggi giocano contro la propensione a incrociare le braccia.
E pure la disintermediazione delle istanze politiche, con la trasformazione della vita collettiva in tanti rapporti individuali e il passaggio da “nessuno si salva da solo” a “si salvi chi può”, ha influito sui tassi di adesione alla giornata di protesta. Non si può dunque parlare di un successo clamoroso della mobilitazione, ma nemmeno del fallimento urlato all’unisono dagli organi della propaganda più “trash” della maggioranza di governo.
Si può concludere dicendo che lo sciopero e la partecipazione ai 46 cortei organizzati da Cgil e Uil sono in linea con lo stato di salute della rappresentanza sindacale.
Il tema, infatti, non è l’assenza di scontento per le politiche economiche messe in campo dal governo nella Legge di Bilancio, che al contrario delle narrazioni governative è ben facilmente riscontrabile nel Paese reale, ma quanto le organizzazioni dei lavoratori sono ancora in grado di incanalarlo e rappresentarlo.

(Foto CGIL Bologna)

Le mobilitazioni sindacali riescono a incidere sulla realtà politica e sociale a due condizioni: quando sono orientate alla conflittualità, parola che scandalizza i benpensanti e che non prelude alla violenza o all’eversione, ma al riequilibrio dei rapporti tra classi e quando le istanze influenzano le decisioni politiche.
Circa il primo aspetto, il sindacato italiano negli ultimi decenni è apparso più orientato all’erogazione di servizi, che alla rivendicazione.
Lo testimoniano le 7 mila sedi e i 25 mila dipendenti di Cgil, Cisl e Uil. Numeri mai visti in precedenza, sintomo di una crescita organizzativa in cui però le funzioni di patronato o di assistenza fiscale hanno offuscato la funzione negoziale del sindacato, apparsa sempre meno efficace, non solo perché in condizioni di stagnazione economica come quelle degli ultimi trent’anni è più difficile ottenere dei risultati.
I maggiori tassi di conflittualità appartengono in questa fase ai sindacati di base, capaci di capacità di penetrazione tra gli strati sociali più marginali, ad esempio tra gli immigrati, e in quei settori dove le condizioni di lavoro sono più dure e le relazioni sindacali più problematiche, come ad esempio nella filiera della logistica. L’esito delle azioni sindacali sconta inoltre – veniamo al secondo punto – con l’incapacità di trasferire le proprie istanze dentro le istituzioni.
Con 6 milioni di lavoratori iscritti – numeri inferiori a quelli degli anni ‘70, ma comunque senza eguali in Europa – e 5 milioni di pensionati, il sindacato confederale non solo fa fatica a mobilitare le piazze, ma tra i tanti portatori di interesse di un Paese estremamente “corporativizzato” (o, più prosaicamente, influenzato da ogni tipo di lobby), quello meno capace di influenzare il decisore politico.

(Foto CGIL Bologna)

Quel che rimane dei partiti fa a meno dei sindacati, obbedendo, quando c’è da prendere decisioni, a istanze tecnocratiche più che politiche. E alle organizzazioni sindacali non rimane che coltivare una relazione finalizzata ad ottenere qualche emendamento correttivo a provvedimenti che penalizzano i loro aderenti e posti in Parlamento per sindacalisti di vertice a fine carriera: una pratica che accomuna destra e sinistra e che rappresenta l’aspetto meno edificante della cinghia di trasmissione tra sindacati e partiti.
La funzione negoziale del sindacato e la sua capacità di influire sulla politica vanno dunque ricostruite alla luce dei tanti cambiamenti di questi anni. Parallelamente, si pone un tema di unità sindacale.
La Cisl da 11 anni non partecipa più ad uno sciopero generale unitario e ha dato sostanziale semaforo verde a tutti i provvedimenti su lavoro e previdenza proposti dai vari governi, a partire dal Jobs Act.
Se è facile osservare il collateralismo della Cgil ai partiti della filiera ex-PCI, altrettanto evidente sta diventando quello del sindacato un tempo di ispirazione cristiana con il partito berlusconiano.
Luigi Sbarra ha nei mesi scorsi dichiarato che «la visione di Forza Italia è coerente con le iniziative della Cisl» e le contestazioni interne alla sua linea governista sono diventate fragorose dopo la mancata adesione all’ultimo sciopero e il sostegno esplicito alla Legge di Bilancio.
Anche nella Prima Repubblica i partiti di riferimento delle principali centrali sindacali erano su sponde diametralmente opposte. Ma questo non impediva alle tre massime sigle sindacali di agire in maniera quasi sempre unitaria. Sembrano ricordi di un tempo lontano, ma sono le condizioni per ridare al lavoro un suo protagonismo nel futuro della società italiana.

(Davide Tondani)