Da Telecom all’Ilva: le lezioni incomprese delle privatizzazioni italiane

Il governo annuncia un piano per il prossimo triennio. Nel frattempo la rete telefonica finisce ad un fondo speculativo e Arcelor-Mittal ostacola lo strategico disegno di rinazionalizzazione dell’ex Ilva

L’annuncio è arrivato con la nota di aggiornamento al Documento di Economia e Finanza (Nadef) dello scorso ottobre: il governo italiano è intenzionato a vendere quote di società pubbliche nei prossimi tre anni con lo scopo di incassare 20 miliardi e ridurre il peso del debito pubblico.
A distanza di qualche mese, tuttavia, il dibattito sulla nuova stagione di privatizzazioni stenta a decollare. Nemmeno la recente intesa con il fondo speculativo americano KKR per la cessione della rete telefonica italiana ha più di tanto smosso le acque sull’argomento, nonostante si parli di un’infrastruttura strategica non solo da un punto di vista delle comunicazioni, ma anche della sicurezza e della difesa nazionale.
In NetCo, la società sorta per gestire cavi e ripetitori telefonici, lo Stato sarà azionista solo al 20% e, oltre al 10% detenuto da fondi di investimento italiani, la parte del leone la farà KKR con i suoi co-investitori.
Una situazione unica in Europa dove gli operatori telefonici “storici”, ex monopolisti pubblici, tengono ben salda la presa sull’infrastruttura fisica su cui si reggono le comunicazioni. In Italia, invece, ci si accontenta di riservare al governo il Golden power, cioè la facoltà dello Stato di bloccare o intervenire in una trattativa che riguarda in qualche modo l’interesse nazionale: cosa che il governo ha scelto di non fare il 17 gennaio, quando ha avallato la vendita della rete agli americani.
È questa la prima lezione della storia delle privatizzazioni all’italiana: ogni volta che lo Stato si è posto come regolatore del mercato o come tutore degli interessi nazionali, la sua azione è sempre stata timida, quando non asservita agli obiettivi dell’azionista privato.
La storia dell’ex Telecom Italia è paradigmatica: il glorioso operatore telefonico di Stato, privatizzato nel 1999 e passato di mano diverse volte, sempre con acquisti a debito garantiti dai profitti che la società conseguiva con l’avvento di telefonia mobile e internet, è stato sommerso dai debiti più di una volta.
Questa volta, con i 22 miliardi che gli americani verseranno a Tim, si salderanno gli enormi debiti dell’ultima gestione, quella franco-italiana di Vivendi e Cassa Depositi e Prestiti (Cdp).
E se l’accondiscendenza verso il minuscolo capitalismo di relazione e senza capitali di casa nostra assume questi connotati, cosa accadrà quando un governo dovrà relazionarsi ad un fondo di investimento come KKR che gestisce un portafolio di 400 miliardi di dollari di investimenti, circa il 20% del Pil italiano?
È una domanda fondamentale: grandi fondi di investimento come Vanguard, Black Rock, Black Stone, Maquaire hanno quote rilevanti nelle più importanti multinazionali, dall’intelligenza artificiale ai giganti del web, sono presenti ovunque e in ogni settore industriale, si arricchiscono con la speculazione finanziaria sui derivati e spremendo imprese per ottenere utili immediati senza sguardi di lungo periodo e senza ammettere alcuna idea di responsabilità sociale, come insegna il caso GKN, la fabbrica fiorentina Gkn, scaricata dal fondo inglese Melrose quando la pandemia rallentò le forniture nel settore dell’automotive.
Il potere enorme di questi giganti del turbocapitalismo è destinato ad aumentare ulteriormente, perché con l’aumento dei tassi di interesse i capitali si sposteranno dai mercati azionari a quelli obbligazionari e ai titoli di Stato, e la loro imponente liquidità risulterà ancor più determinante nelle grandi operazioni societarie.
Privatizzare in questo contesto significa gettare in balia delle onde quel che rimane delle partecipazioni statali. La cosa non sembra turbare il ministro Giorgetti, che ha dichiarato di aver parlato del suo piano di dismissione a diversi fondi esteri nel corso del World Economic Forum di Davos, la settimana scorsa.
Nelle intenzioni del Governo sul mercato dovrebbe andare il 4% di Eni, dove lo Stato è azionista ancora al 30%, il 10-15% di Poste Italiane (dove attualmente il Tesoro detiene il 29% e Cassa Depositi e Prestiti il 35%) e una quota di Ferrovie dello Stato, ancora interamente pubblica.
In sostanza energia, risparmio, servizio postale, trasporti e infrastrutture ferroviarie: sul mercato andrà l’ossatura su cui si regge un pezzo rilevante del sistema-paese. E una volta privatizzato tornare indietro sarà impossibile, se non a costi folli. Lo dimostra il caso delle acciaierie di Taranto.
A quasi trent’anni dalla cessione dall’IRI al gruppo Riva il governo vorrebbe riacquisire il 66% del capitale di Acciaierie d’Italia, ma il socio privato Arcelor Mittal, player mondiale della siderurgia, non vuole partecipare all’aumento di capitale, bloccando il ritorno del pubblico e aprendo le porte ad una complessa causa legale che porterebbe alla paralisi produttiva: una lezione dei nostri giorni che non sembra essere del tutto compresa.

(Davide Tondani)