

I correnti scontri in Sudan hanno già causato 500 vittime, 50mila profughi e 75mila sfollati interni. Il quadro di tensioni restituisce le fratture irrisolte ereditate dal trentennale governo di al-Bashir.
Salito al potere con il golpe del 1989, egli fu l’artefice delle fortune dei due attuali pretendenti alla guida dello stato: Dagalo, alias Hemedti, leader dei paramilitari delle Rsf, e al-Burhan, capo dell’esercito regolare e dal 2021 al vertice del Consiglio sovrano di Transizione.
Già fiduciari di al-Bashir, entrambi parteciparono alla sua deposizione nel 2019, collaborando ancora due anni dopo nel rovesciare il governo di Hamdok.
Il Sudan, come molte altre realtà africane – tanto più essendo la porta di accesso all’Africa subsahariana -, è condizionato da forze esterne. La Cina stessa iniziò da lì la penetrazione economica nel continente nero; ma, a far data dalla secessione del Sud Sudan, dove sono concentrati i giacimenti di petrolio, Khartoum ha perso di importanza per Pechino.
Dietro la crisi attuale taluni ipotizzano piuttosto una regia russa veicolata dal Gruppo Wagner. Le Rsf godono di supporti da questa brigata, quantunque ridotti nel numero degli operativi per l’impegno sul terreno ucraino.
D’altro canto serve considerare che il governo di al-Burhan solo un mese fa è tornato a riunire il tavolo tecnico per l’istallazione di una base militare russa a Port Sudan. Segno che il Cremlino mantiene i canali con entrambi i rivali, interessato come è a completare l’asse geostrategico che costituisce uno dei principali (benché scarsamente commentati) motivi del conflitto tra Russia e Usa per “interposte” Ucraina e Siria: la proiezione a sud dell’influenza di Mosca.
A quest’ultima, infatti, si presta anche il presidio sul litorale sudanese del Mar Rosso, che consentirebbe alla Russia di inserirsi nella gestione delle rotte di Suez, in traiettoria con la presenza nel Mediterraneo orientale facente perno sui porti siriani, che a sua volta rende indispensabile per il Cremlino preservare l’agibilità del Mar Nero dall’atlantizzazione delle coste ucraine.
La destabilizzazione metterebbe in allarme le monarchie del Golfo, l’Egitto, e la stessa Europa, nella prospettiva di vedere fuori controllo un crocevia dei flussi migratori. Con la spallata tentata da Hemedti, la crisi sudanese assume i contorni di una resa dei conti tutta locale, mentre le attenzioni di Washington e Mosca si concentrano sul teatro ucraino.
Ma “locale” non significa “marginale”. Secondo una dinamica tipica dell’Africa postcoloniale, questa lotta di potere va ad incrociare il genocidio su base etnico-religiosa: gli ingredienti ci sono tutti e gli scontri rischiano di propagarsi anche all’Etiopia, come pure nel quadrante dei Grandi Laghi. Per questo sulla comunità internazionale pesa l’urgenza di agire con ogni leva e, almeno stavolta, tempestivamente, anziché limitarsi a isolare l’incendio riservandosi di intervenire sulle ceneri, dopo il disbrigo di agende più “strategiche”.
G.C. – Agensir