Quando a Sarajevo per un giorno scoppiò la pace

Guerra in Bosnia. Trent’anni fa la “marcia” nella città assediata

La sera dell’8 dicembre 1992 i pacifisti italiani sbarcano a Spalato dopo una durissima traversata dell’Adriatico (foto tratta da www.balcanicaucaso.org)

Quel giorno di trent’anni fa a Sarajevo non erano un esercito, ma la loro presenza fece cessare per un giorno il rumore delle armi e riempì il silenzio di grida di pace e di speranza. Avrebbero voluto essere centomila, alla fine furono poco meno di cinquecento, ma di quell’impresa si parla ancora oggi, che nel cuore dell’Europa un’altra guerra brucia il nostro presente. Oggi che altre migliaia di morti e feriti si contano tra le donne, gli uomini e i bambini; oggi che milioni di europei sono costretti a lasciare tutto trasformandosi in profughi che sperano nella nostra accoglienza.
Nel 1992 la dissoluzione della Jugoslavia mostrò a tutto il mondo quanto possano essere spietati i nazionalismi: la guerra di Bosnia entrò nelle nostre case e ci lasciò prima increduli, poi impotenti e, poi ancora, cobelligeranti! Le armi e i militari della Nato – e quindi anche i nostri – tornarono sul campo per “pacificare” un territorio nel quale dopo trent’anni l’incendio non è del tutto spento.
In Bosnia le armi avevano iniziato a sparare alla fine dell’inverno del 1992: l’esercito bosniaco da un lato, quello croato dall’altro, in una spirale che in breve coinvolse mezzo mondo e che si sarebbe conclusa solo nel dicembre 1995. Terreno fertile alla guerra era stato creato fin dall’ottobre del 1991 quando la Croazia aveva sancito il proprio distacco dalla morente Jugoslavia e affermato la propria sovranità nazionale, contestata però dalla Bosnia Erzegovina.
Si dimostrarono vani tutti i tentativi diplomatici di comporre un quadro estremamente complesso e fu la guerra. Un conflitto del quale ricordiamo molto poco, ma le cui conseguenze sono ancora oggi parte del nostro quotidiano. Ma almeno un nome è rimasto familiare, al pari e più di quelli di altre realtà tragicamente coinvolte, da Mostar a Srebrenica. Sì, perché Sarajevo è la comunità simbolo di quella guerra scoppiata e combattuta a poche centinaia di chilometri da noi e durata quasi quattro anni, con il suo tremendo carico di sofferenze.
La “città martire”, capitale della Bosnia-Erzegovina, fu la prima dove comparvero le barricate, dove la politica e le trattative lasciarono spazio ai proiettili: era il 1° marzo 1992 e tra l’incredulità generale il fuoco della guerra crebbe alimentandosi giorno dopo giorno, fino a diventare un incendio capace di avvolgere tutto e tutti, compresa la speranza di estinguerlo. In mezzo a quell’incendio qualcuno decise di imbracciare le armi della Pace; un gruppo di “folli”, come vennero poi chiamati, aveva pensato che se si fosse frapposto tra le parti in guerra avrebbe potuto creare una diga alle bombe e alle pallottole e innescare un movimento capace di spegnerlo, quell’incendio.
Don Albino Bizzotto, sacerdote vicentino classe 1939, e i suoi “Beati i costruttori di Pace” avevano ben chiaro il progetto: fare qualcosa di importante prima che tutto fosse perduto. Lo slogan era “in centomila a Sarajevo”, una moltitudine contro la guerra, ma il mondo della grande informazione non propagò l’eco di quell’annuncio e alla fine furono 496 a partire per attraversare l’Adriatico. Sulla nave che salpò il 7 dicembre da Ancona c’era una umanità variegata: tanti giovani ma anche persone avanti con gli anni; religiosi e religiose, obiettori di coscienza, cattolici e atei.
Con don Albino Bizzotto erano (almeno) altre due menti illuminate: mons. Tonino Bello (1935-1993), vescovo di Molfetta, e mons. Luigi Bettazzi (1923), vescovo di Ivrea. Decidere di partire per “invadere” una città in guerra non è uno scherzo e tutti ne sono consapevoli: si parte senza certezza di tornare, se poi ci si mette anche una tremenda tempesta nel centro dell’Adriatico qualche dubbio può venire anche in corso d’opera. Anche perché la loro missione non è concordata con nessuno!
Certo l’Onu è informata, le diverse fazioni in lotta sanno dell’arrivo di quei “folli” che combattono per la Pace, ma non c’è alcuna garanzia. Infatti il viaggio via terra verso Sarajevo è un vero e proprio calvario. Tra decine di posti di blocco e lunghe soste per le trattative, la colonna dei cinquecento impiega quattro giorni a coprire 250 chilometri: il progetto è entrare in città il 10 dicembre, Giornata Mondiale dei Diritti Umani, ma l’11 i volontari, che sventolano solo la bandiera della pace e hanno rifiutato qualunque scorta, compresa quella dell’Onu, non sono ancora in vista della città.
C’è la neve, il freddo è intenso, ma la preoccupazione è tutta concentrata sul come fare ad entrare. Sarajevo, infatti, è assediata, non sembra esserci modo di poter spezzare il cordone che la stringe per soffocarla. All’interno dell’area urbana ben pochi sanno dell’arrivo dei pacifisti, gli assedianti sono ben poco disposti a farli entrare, ma alla fine i “folli” ce la fanno e per un giorno anche a Serajevo scoppia la pace.

Paolo Bissoli