Alcuni pacifisti italiani appena rientrati dalla Bosnia. Tappa tra i profughi in fuga verso l’Europa
Ritorno a Sarajevo. Di viaggi-testimonianza nella capitale bosniaca il movimento pacifista che aveva ispirato la marcia del 1992 ne ha compiuto più di uno, quando ancora la guerra stava mostrando il peggio della natura umana e altre volte in seguito, soprattutto ad ogni decennale. Ed è stato così anche quest’anno, pur se in una versione “non ufficiale”, visto che l’associazione “Beati i costruttori di Pace” ha rinviato il viaggio a primavera e sta lavorando per quel grande appuntamento.
Ma il trentennale dal viaggio di quei 500 “folli” non poteva essere trascurato ed è così toccato ad una piccola delegazione evidenziare come quella gente e quella guerra non siano state dimenticate. Ecco così la “spedizione” in Bosnia di quella quindicina tra veneti, toscani e siciliani che hanno dedicato una decina di giorni alla “missione”. Non si è trattato, infatti, di un viaggio nostalgia, ma di un’occasione importante per osservare la nuova Serajevo e comprendere i nuovi bisogni di quelle terre.
Tra gli impegni “ufficiali” della delegazione anche la visita al Museo della strage di Srebrenica (una mostra fotografica permanente nel centro di Sarajevo) e al Museo dell’Infanzia di Guerra (aperto nel 2017 per illustrare la vita e le esperienze dei bambini cresciuti durante gli anni del conflitto); significativo il dialogo con la presidente di un’associazione che si occupa di aiutare i profughi che arrivano in Bosnia. E poi il ritorno in alcuni luoghi simbolo: il tunnel che veniva utilizzato dai volontari che arrivavano all’aeroporto per entrare in città evitando il cordone d’assedio che la isolava dal resto del mondo, ma anche il ponte Vrbanja sul torrente Miljacka dove il 3 ottobre 1993 un cecchino uccise il giovane religioso e pacifista comasco Moreno Locatelli, che a Sarajevo era tra i volontari impegnati nella distribuzione di viveri e della posta che arrivava clandestinamente dal resto del mondo, spedita ai famigliari dai profughi che erano fuggiti. Un viaggio nella memoria dunque quello compiuto in Bosnia dei quindici rientrati sul finire della scorsa settimana? Anche, ma non solo. A spiegarlo è Paolo Zammori, che anche questa volta non ha mancato l’appuntamento con la missione al di là dell’Adriatico.
“Dopo i giorni a Sarajevo ci siamo diretti a nord ovest, fino ai campi profughi e ai rifugi di fortuna a ridosso del confine con la Croazia”: qui un popolo di disperati in arrivo dal Medio Oriente cerca in ogni modo di varcare il confine con la Croazia diretto in Italia e, soprattutto, in Germania. I campi di Bihac e Lipa sono veri e propri gironi infernali dove i profughi sopravvivono tentando ogni giorno di passare un confine presidiato da guardie armate. Quelli che riescono a passare sono pochi; chi ce la fa rischia di essere catturato anche dopo aver percorso molti chilometri e non mancano coloro che muoiono annegati nel tentativo disperato di attraversare fiumi e torrenti.
La situazione trovata da Zammori è davvero ben oltre il peggior incubo: sono i giovani uomini a tentare di arrivare prima in Croazia e poi nell’Unione Europea per chiedere quindi il ricongiungimento con la famiglia rimasta nei campi profughi. Uomini che nel frattempo vivono in capannoni abbandonati o case semidistrutte, senz’acqua, senza cibo né riscaldamento. A loro la piccola missione italiana ha portato vestiti, coperte e generi alimentari: davvero una goccia in un mare di necessità quotidiane, ma pur sempre una goccia. Con l’imperativo di testimoniare, a tutti noi, una realtà che non ha nulla di umano.
(p. biss.)