L’ardita impresa di Pupi Avati regista, sceneggiatore e produttore del film sul sommo poeta
Il regista bolognese dallo schermo nero della prima sequenza del suo film Dante fa muovere le ombre che danno vita al grande fiorentino, prima che eccelso poeta lo sente persona colta nella sua umanità, come uno di noi. Non fa una biografia secondo schemi stilistici consueti. La sua disobbedienza ai canoni conformati alla “decima musa”, ispiratrice della moderna arte del movimento (cinema), Avati la richiamò anche in un incontro a Pontremoli una serata di qualche anno fa. L’ossatura di questo film si regge sull’amore di Giovanni Boccaccio per Dante; a lui si deve l’aggiunta di “divina”alla Commedia, il Trattatelo in laude di Dante e la lettura commentata ai fiorentini dei primi 17 canti dell’Inferno.
Sergio Castellito è il protagonista Boccaccio che va a Ravenna per consegnare a Dante là rifugiato dieci fiorini d’oro come risarcimento simbolico dei beni sequestrati dopo la condanna per baratteria e riconosciuta falsa accusa da alcune donne gentili. Lo spazio della narrazione è la via da Firenze a Ravenna, il tempo è il 1350, si sente ancora l’odore della morte due anni dopo la terribile peste bubbonica che colpì il mondo. Durante il viaggio incontra persone che avevano conosciuto il poeta: sono come tanti “flash-back sulle esperienze di un uomo che ha molto sofferto. Donne pietose assistono Dante agonizzante per malaria, è la notte tra il 13-14 settembre 1321. La metafora dell’alfa e dell’òmega come termini della vita è rovesciata, si risale all’infanzia di Dante che assiste alla morte della mamma, crescerà col padre e la sua nuova moglie.
Dante giovane, interpretato da Alessandro Sperduti, non parla mai con le parole ma col sorriso e la luce degli occhi che hanno visto Beatrice bambina, poi adolescente e nasce un amore sublime e per sempre. Le emozioni profonde, le vibrazioni psicologiche Dante le fece parola scritta mentre germogliavano all’interno di sé, ammirate da Guido Cavalcanti e gli altri amici del Dolce stil novo e pure da noi quando leggiamo la Vita nuova in forma di “prosimetro”, alcuni brani sono la musica di fondo nel film; “io ti saluto” le uniche loro parole nel sonoro del film. Beatrice vive nell’eterno della poesia, gentile e onesta, dà onore, appare come creatura venuta da cielo in terra a miracol mostrare. È soave ispirazione amorosa, dolce turbamento di un legame che va oltre la morte precoce dell’amata.
Dante è disperato, per sollevarlo la famiglia lo fa sposare con Gemma Donati, non amata, madre dei tre figli Pietro, Jacopo e Anna, ridotta misera li invoca là dove erano le case degli Alighieri. La lotta politica era sempre più furibonda, tra guelfi bianchi e neri si venne al sangue, Dante di parte bianca, che nel 1289 aveva combattuto contro Arezzo nella piana di Campaldino, gravato da problemi economici si candidò a priore delle arti, ma gli intrighi di papa Bonifacio VIII e l’inganno dei francesi portano al predominio dei neri.
Dante è condannato a morte: non può far altro che restare in esilio per sempre. Una donna nel film dice di aver accolto Dante impegnato a comporre un’opera per la quale sperava di tornare a Firenze e essere incoronato poeta. Boccaccio dice di dovere tutto a Dante, maestro del suo poetare, ci sono citazioni e immagini da Elegia di madonna Fiammetta, il grande amore dello splendido novellista certaldese, anch’egli in cerca del padre morto di peste e della figlia Violante; la trova ma non lo riconosce come padre.
A Ravenna consegna il peculio dei fiorini alla figlia di Dante diventata suor Beatrice, che dapprima non vuol parlare perché odia i fiorentini, ma poi capisce la commozione e l’ammirazione per suo padre, che a Ravenna contemplava la perfezione geometrica del campanile a cilindro e la meraviglia dei mosaici di Sant’Apollinare in Classe ispiratori del Paradiso. Buona visione! Lo merita.
Maria Luisa Simoncelli