Cresce il Terzo Settore,  a rischio il volontariato?

Del Terzo Settore si è molto parlato in questi ultimi anni per la riforma che ha coinvolto le realtà associative. Sono stati necessari diversi interventi per adeguare gli statuti degli enti alle nuove disposizionie provare a far chiarezza su tante situazioni che ondeggiavano tra il volontariato reale e quello di facciata. L’operazione, quindi, non può essere contestata, specie da parte di chi ha sempre agito sul versante corretto della gratuità delle azioni e degli interventi.
Il Rapporto Sussidiarietà 2021-2022 – “Sussidiarietà e… Sviluppo sociale” -, pubblicato dall’omonima fondazione, cerca di dare un contributo all’analisi della situazione dopo due anni che hanno segnato in modo forse indelebile l’andamento della nostra società. Il Terzo Settore è cresciuto di più del 25% in dieci anni, giungendo a contare oltre 375.000 istituzioni. Il valore della sua produzione è stimato a quasi il 5% del PIL; gli addetti sono oltre 900.000; in più, vi operano 4 milioni di volontari.
Contestualmente, è cresciuta in maniera notevole (+61%) la destinazione del 5×1000 a questi enti no profit: ne beneficiano 73mila organismi, il doppio sempre in dieci anni. Un fatto significativo, anche se non misurabile con numeri, è che la partecipazione alle attività di volontariato contribuisce al miglioramento della qualità della vita e riduce il rischio di cadere in stato di povertà.
Tutto ciò è inserito in una situazione di squilibrio e disuguaglianza che i dati Oxfam descrivono in crescita: dopo la pandemia da Covid-19, la ricchezza dei miliardari è arrivata al 13,9% del Pil mondiale. Nel 2000 era il 4,4%. L’1% più ricco detiene più del doppio della ricchezza netta posseduta da 6,9 miliardi di persone.
Nel mondo 263 milioni di persone rischiano di cadere in una condizione di estrema povertà; in Italia la povertà assoluta tocca 1,7 milioni di famiglie, un dato tra i peggiori in Europa. Nel contempo, si torna a valorizzare il principio di sussidiarietà, per il quale, per lo svolgimento di attività di interesse generale, i pubblici poteri dovrebbero intervenire solo laddove i privati, singoli o associati, non siano in grado di provvedere in modo autonomo.
Tutto bene, quindi? Sì e no. Se è giusto, infatti, che sia fatta chiarezza sulle reali caratteristiche di tante attività, è altrettanto vero che un peso eccessivo dei doveri messi in spalla alle associazioni di volontariato (quando siano veramente tali) rischiano di spingerle verso una forma di professionismo di fronte alla quale la maggior parte di esse si trova spiazzata, con l’aggiunta di responsabilità che difficilmente un volontario può accettare di assumere.
Può sembrare banale parlare di “buon senso” ma in questo caso ci sembra che una buona dose di questo ingrediente potrebbe contribuire a mantenere appetibile la ricetta dell’associazionismo ispirato alla gratuità.

Antonio Ricci