La “ crisi di Dio ” rende sempre più difficile la trasmissione della fede

All’interno della crisi generale che si vive nella società occidentale, è facile mettere in luce la crisi della religione e, in particolare, la crisi del cristianesimo. Dall’interno della Chiesa, i fatti più vicini e preoccupanti sono il calo della pratica religiosa, la diminuzione delle vocazioni al ministero presbiterale e alla vita consacrata, l’allontanamento diffuso dei giovani e il conseguente invecchiamento delle comunità.
Tuttavia, sotto questi segnali visibili di crisi religiosa sta avvenendo qualcosa di più radicale: quello che il teologo Johann Baptist Metz chiama “la crisi di Dio”. Questo fatto è stato descritto in molte forme: “Dio è morto” (Friederich Nietzsche), stiamo vivendo “l’eclissi di Dio” (Martin Buber), siamo rimasti “senza notizie di Dio” (Manuel Fraijò).
Si continua a parlare di lui, però “Dio” è divenuto per molti una “parola fossile”: testimone della fede di altri tempi, oggi quasi priva di significato. Dio ha cessato di essere il fondamento dell’ordine sociale e il principio integrante della cultura: da un’affermazione sociale di massa, pubblica e istituzionale di Dio, si è passati ad una situazione di indifferenza sempre più diffusa.
La questione di Dio lascia indifferente un numero sempre più grande di persone; la fede in Dio pare diluirsi nella coscienza dell’uomo moderno. Dio non interessa, sono sempre meno quelli che pensano a lui come principio che orienta il loro comportamento.
Scrive Emile Poulat: “Stiamo entrando in una era post-cristiana”. Infatti è facile constatare la perdita crescente della “memoria cristiana” e sono sempre di più quelli che ignorano il fatto cristiano, anche come fenomeno storico e culturale, scrive il filosofo Juan Martin Velasco; è sempre più difficile la trasmissione della tradizione cristiana alle nuove generazioni.
Recentemente lo stesso Velasco ha parlato di una “metamorfosi del sacro”. Si comincia a pensare che stiamo vivendo un’epoca che può avere profonde ripercussioni sul futuro del cristianesimo e delle religioni, scrive il filosofo Karl Jaspers, come quelle che ebbe il cosiddetto “tempo cardine” nel primo millennio prima di Cristo, quando nacquero le grandi religioni e il pensiero filosofico in vigore fino ai giorni d’oggi (Lao Tse e Confucio in Cina, le Upanishad e Buddha in India, Zarathustra in Persia, i grandi profeti in Israele ed il pensiero filosofico dei pre-socratici, Socrate e Platone in Grecia).
Il diffondersi di nuove correnti religiose o di spiritualità ha potuto far pensare che “Dio ritorna”, ma non è così. Le nuove tendenze religiose non rimandano, in generale, ad una trascendenza che l’essere umano necessita di riconoscere, ma chiudono l’individuo in sé stesso. Qui la salvezza non è grazia che l’uomo riceve da Dio, ma processo di autorealizzazione della coscienza.
La “morte di Dio” non è una buona notizia per nessuno perché sta trascinando l’umanità verso una “cultura del nulla” che molti considerano “la definizione della nostra epoca”. Lo storico Gabriel Amengual scrive che “con la morte di Dio non si indica solamente la scomparsa dell’idea di Dio, ma anche ogni intento di dare coerenza e senso, fondamento e finalità, mete e ideali: il crollo di tutti i principi e valori supremi”.
Non è strano che la crisi di Dio e il conseguente nichilismo facciano emergere oggi domande tanto esistenziali quanto inquietanti: dove può trovare la convivenza umana un nuovo punto d’appoggio per orientare il suo percorso storico? Come ripensare la trascendenza e la sua relazione con l’immanente? Dove trovare una sintesi tra il sacro e il secolare? In quale direzione trovare modelli adeguati per dire Dio?

don Francesco Sordi