La Pietà Bandini, un capolavoro di bellezza restituito al mondo

Completato a Firenze il restauro dell’opera scolpita da Michelangelo alla metà del Cinquecento. Fino al 30 marzo sarà possibile vedere da vicino la scultura grazie ad uno speciale percorso nel Museo dellOpera del Duomo

Il volto di Nicodemo nella Pietà Bandini: vi si individuerebbe l’autoritratto di Michelangelo (Agenzia SIR – foto Claudio Giovannini/CGE)

La scorsa settimana abbiamo dedicato la prima pagina del settimanale alla notizia della conclusione del restauro della Pietà Bandini, monumentale capolavoro di Michelangelo conservata a Firenze nel Museo dell’Opera del Duomo.
La notizia, infatti, è di straordinaria importanza per i molti spunti che offre. Intanto quello di un cantiere durato quasi due anni, complice anche un’interruzione nella fase più acuta della pandemia da Covid-19; poi per il fatto che si tratta del primo, vero intervento di restauro negli oltre 470 anni di vita dell’opera scolpita dal grande artista alla metà del Cinquecento, una decina d’anni prima della fine della sua lunga vita.
Imperdibile anche l’occasione che fino al 30 marzo 2022 viene data ai visitatori: la possibilità di vedere da molto vicino, fino quasi a toccarla, un’opera che altrimenti si può osservare solo da una certa distanza. Grazie infatti al cantiere di restauro si potrà osservare nei minimi particolari il lavoro che Michelangelo ha compiuto in una delle sue produzioni più emblematiche.
Così vicini da trovarsi – per così dire – faccia a faccia con l’artista che, come vogliono molte interpretazioni, ha voluto raffigurarsi ormai ottantenne nel volto di Nicodemo. Ma c’è un altro aspetto di notevole interesse messo in evidenza dal restauro: le analisi compiute sul marmo ne hanno determinato la provenienza dalle cave versiliesi di Seravezza e non da quelle di Carrara come molti avevano ipotizzato. In realtà alcuni studiosi – anche del nostro territorio, come la prof.ssa Caterina Rapetti – avevano sottolineato come fosse molto incerta la provenienza del marmo. Il blocco utilizzato da Michelangelo era tra quelli da lui fatti arrivare a Roma nel corso dei decenni e rimasti a lungo inutilizzati.

Alcune fasi del restauro della Pietà Bandini nel Museo dell’Opera del Duomo a Firenze (Agenzia SIR – foto Claudio Giovannini/CGE)

Quando, intorno al 1547, il maestro inizia a scolpire la sua seconda “Pietà” – che avrebbe preso il nome di uno dei tanti proprietari (il banchiere Francesco Bandini che l’aveva acquistata per la sua villa romana di Montecavallo) da molti anni ormai aveva interrotto i viaggi nelle cave delle Apuane. Una pratica iniziata nel 1497 quando era arrivato a Carrara per scegliere con i propri occhi il marmo per la prima “Pietà”, quella nota universalmente e conservata nella Basilica di San Pietro in Vaticano.
Da allora era tornato più volte, anche con permanenze che si erano protratte per mesi nonostante i molteplici impegni, affascinato da una materia che voleva senza alcuna imperfezione e anche dalla maestria di quei “maestri di cavar marmi” che erano i cavatori di Carrara. Luogo prediletto e “tradito” solo per una parentesi nelle cave versiliesi di Seravezza sul finire del secondo decennio del Cinquecento.
Alcuni degli incarichi più importanti Michelangelo non li portò a termine (tra i più famosi quello per la facciata della chiesa fiorentina di San Lorenzo) o lo fece in modo differente dal primo progetto (ad esempio la tomba di papa Giulio II) e molti marmi, già scelti e consegnati, rimasero inutilizzati.
Tra questi probabilmente anche il grande blocco (alto 225 cm del peso di 2,7 tonnellate) dal quale, tra mille tormenti dell’animo, estrasse la raffigurazione di una Pietà mai conclusa – destinata ad un altare in una chiesa romana, ai piedi del quale il maestro voleva essere sepolto – e nella quale ha voluto che non fosse solo la Madre a sorreggere il Figlio morto ma fosse aiutata anche da Maddalena e dallo stesso Nicodemo-Michelangelo.

Paolo Bissoli