Guerre e terrorismo internazionale: la  pesante eredità dell’11 settembre

2001 – 2011. Venti anni fa gli attentati alle Torri Gemelle che diedero il via ai conflitti in Afghanistan e Iraq

New York, 11 settembre 2001: il crollo delle Torri Gemelle

L’ 11 settembre di 20 anni fa l’attentato alle Twin Towers di New York proiettò il mondo in una nuova fase storica a tutt’oggi ancora aperta. Gli aerei che si schiantavano contro i grattacieli newyorkesi e contro il Pentagono e le circa 3 mila vittime di quella mattina americana furono l’apice del crescendo di atti terroristici – cominciati proprio alle Torri Gemelle nel 1993 – firmati dal fondamentalismo islamista contro gli Stati Uniti. Un sistema mass-mediatico divenuto globale con il consolidarsi della rete Internet contribuì a amplificare il messaggio di quegli attentati che divennero subito il simbolo del nascente ventunesimo secolo. Il sentimento di vicinanza con la città considerata simbolo dei valori e dello stile di vita occidentale che tv e giornali di tutto il mondo veicolarono anche con eccessi di retorica oscurarono qualsiasi voce critica.
L’editoriale “Siamo tutti americani” del direttore del Corriere della Sera, che il 12 settembre titolava “Attacco all’America e alla civiltà” rappresentarono bene un clima internazionale che oscurava le voci che si opponevano a qualsiasi ritorsione armata, come quella di “Peaceful tomorrow”, la più grande associazione delle vittime dell’11 settembre. Il neoeletto presidente George W. Bush in poche ore venne elevato, da inadeguato ad un ruolo a cui giunse dopo elezioni contestatissime, a comandante in capo dell’intero mondo occidentale, coinvolto in quella che una ben veicolata cultura politica neoconservatrice chiamava “scontro di civiltà”. In quel clima gli Stati Uniti diedero il via ad una guerra in Afghanistan, reo di dare ospitalità alla famiglia Bin Laden, supportati dalla Nato da pochi anni trasformata da alleanza antisovietica a presidio militare degli interessi occidentali. Eppure nessun dirottatore era afghano e, secondo un’inchiesta solo parzialmente desecretata del Congresso statunitense, negli attentati furono coinvolti ambienti vicini all’intelligence saudita, paese, assieme al Pakistan, che vanta ottimi rapporti con gli americani, nonostante la disumanità del regime della famiglia reale Al Saʿūd.

Un vigile del fuoco sulle macerie delle Torri Gemelle. ((U.S. Navy Photo by Photographer’s Mate 2nd Class Jim Watson)

Due anni dopo sarà l’Iraq ad essere preso di mira con il pretesto – dimostratosi una menzogna – del possesso da parte di Baghdad di armi di distruzione di massa. L’indulgenza che ancora oggi viene riservata a Bush stride con i risultati delle sue scelte belliche: la riconquista di Kabul da parte dei Taliban, la trasformazione dell’Iraq nella culla del terrorismo del Daesh, gli attentati che hanno insanguinato l’Europa, la destabilizzazione dei fragilissimi equilibri del Medioriente, dicono che le guerre promosse assieme alla Gran Bretagna di Blair sono state una catastrofe umanitaria e diplomatica.
Commemorare il ventennale degli attentati di New York nei giorni in cui il martoriato Afghanistan ritorna nelle mani di quei Taliban che gli Stati Uniti finanziarono e armarono in chiave antisovietica negli anni ’80, significa anche ammettere che la democrazia non si esporta con le guerre: 240 mila vittime dirette del conflitto, tra cui oltre 71 mila civili, non hanno fatto degli afghani un popolo sovrano.
La pretesa occidentale di impiantare con bombe e carri armati i meccanismi delle democrazie rappresentative e del costituzionalismo in paesi culturalmente e storicamente lontani dai nostri stati nazionali si è rivelata fallimentare; l’idea che un paese ancora percorso da logiche di clan e divisioni etniche, che non ha fatto propri i principi della laicità e della separazione dei poteri civili e religiosi, con una forte instabilità politica, potesse sposare i principi del liberalismo e dotarsi di istituzioni democratiche esclusivamente grazie alla presenza di truppe di occupazione nascondeva una presunzione di superiorità dell’Occidente di cui i neoconservatori americani che guidavano l’amministrazione Bush erano convinti assertori: una presunzione utile a promuovere, più che la democrazia e lo sviluppo, gli interessi strategici e geopolitici occidentali su quell’area e che a 20 anni dall’11 settembre necessita di essere messa in discussione. (Davide Tondani)

Prima o poi siamo tutti profughi.
Ora tocca agli afgani

L‘Afghanistan è precipitato in un’emergenza terribilmente drammatica. I talebani che seguono interpretazioni estremiste, arbitrarie del Corano, sono tornati a dominare, in pochissimi giorni sono diventati padroni della capitale Kabul, controllano e opprimono chi mira a salvarsi dalla loro violenza. Vogliono cancellare diritti e libertà che soprattutto le donne sono riuscite a conquistare. Le speranze di nuovo si sono sbriciolate, il governo e l‘esercito afgano si sono dissolti per corruzione e incapacità, i militari della Nato, entrati nel paese nel 2001 per colpire i terroristi ritenuti colpevoli dell’assalto alle torri gemelle, ora stanno tornando a casa in tutta fretta mentre avrebbero potuto evitare il caos con decisioni definite a tempo debito e pensando a proteggere la popolazione civile che ora corre disperata verso l’aeroporto con poche possibilità di salvarsi.
In Afghanistan stiamo perdendo tutti, l’Occidente ha fallito pensando di potere portare i suoi sistemi politici e sociali in paesi di altra impostazione culturale; gli afgani divisi in tribù da secoli non desistono dal farsi guerra e cadono sotto oppressione di estremisti che odiano l’istruzione, rinchiudono la donna in casa come oggetto di loro proprietà esclusiva, può uscire solo se blindata dentro un abito orribile, senza l’autonomia di un lavoro proprio, senza scuola. Ora faranno strage di chi ha lavorato per liberarsi da tanto oscurantismo.
Vediamo immagini molto forti di file di profughi, donne coraggiose fanno sentire la loro ansia. I bambini non sono più i “Cacciatori di aquiloni” di Hosseini, ci sono lacrime nei loro occhi e dei loro padri. La politica affronta la crisi senza trovare una linea comune su come accogliere i profughi messi in salvo con ponti aerei, sulla necessità di aprire un canale di dialogo diplomatico coi talebani, non per legittimarli ma per condizionarli, come già fanno Russia, Cina e Turchia e come fa anche l’Occidente che, non lo dice, ma fa mercato di armi e di oppio con l’Afghanistan. Alla maggioranza degli americani dei profughi afgani non importa nulla ed è questo un tradimento dei valori democratici, altri paesi temono una loro invasione, scaricano il dovere morale e civile dell’accoglienza sui paesi limitrofi.
L’Italia si distingue positivamente: ha messo in salvo tanti profughi e c’è un bel contagio di solidarietà, mentre si gridava che i profughi dalla Libia stessero a casa loro, invece ogni giorno piccoli e grandi Comuni danno disponibilità ad accogliere i profughi afgani. Forse di più e meglio che nella lotta contro il covid, abbiamo capito che in un mondo molto instabile “gli altri siamo noi”, finalmente coerenti e cristiani.
L’Italia ha avuto i suoi militari a lungo nella base di Herat, hanno creato buoni rapporti e ora sta mettendo in salvo con ordine ed efficienza, il premier Draghi, cosa mai vista, incalza il presidente Biden e prende l’iniziativa di un G20 straordinario per permettere a chi ha abbandonato tutto e tutti di tornare nel grembo del proprio paese. Il 25 agosto in una casa della CRI a Roccaraso è nata in Italia la prima bambina afgana, il mediatore culturale commosso le ha augurato di godere di essere in un paese libero ma anche di tornare nella sua patria “sì bella e perduta”, sospirata dagli ebrei e dai tanti deportati che hanno calpestato i sentieri del mondo. (Maria Luisa Simoncelli)