“Adesso, ovunque io vada, ovunque io sia, ovunque mi trovi sento sulle mie spalle, come un macigno, il peso degli sguardi scettici, prevenuti, schifati, impauriti delle persone. Qualche mese fa ero riuscito a trovare un lavoro che ho dovuto lasciare perché troppe persone, prevalentemente anziane, si rifiutavano di farsi servire da me e mi additavano anche la responsabilità del fatto che molti giovani italiani (bianchi) non trovassero lavoro”.
È il centro di un post accorato pubblicato su facebook nel 2018, nel pieno della polemica sull’immigrazione, nei giorni dei porti chiusi. Chi scrive è un giovane italiano. Non è bianco. È nato in Etiopia, ma è stato adottato da una famiglia italiana quando aveva sette anni. Era perfettamente integrato, era perfino stato scelto per giocare a calcio nelle giovanili del Milan.
Studente universitario brillante, negli ultimi due anni aveva vissuto in Finlandia dove aveva vinto una borsa di studio. Ora si è suicidato. La famiglia chiede che non si facciano strumentalizzazioni politiche, che il razzismo non ha nulla a che vedere con ciò che è accaduto al proprio figlio. Ma quel post di due anni fa non può essere ignorato e nessuno crede che il razzismo non abbia avuto il suo peso, magari accanto ad altre fragilità, nella drammatica scelta di Seid Visin.
Qui non si tratta del razzismo becero degli stadi o di certi movimenti abbastanza identificati. C’è un razzismo più sottile, più perfido, originato da certe campagne che hanno contribuito a confondere tutto. Oggi sono tanti gli italiani che hanno un colore della pelle diverso. Però tutti coloro che hanno un colore diverso dal bianco sono considerati da molti “immigrati”, senza alcuna distinzione, quasi che tutti siano arrivati in Italia con i barconi. E su tutti pesa la colpa di “rubare” il lavoro agli italiani.
Ad un certo punto Seid si era reso conto che il mondo attorno a lui era improvvisamente cambiato. Mentre prima era visto quasi con affetto poi tra la gente si è insinuato il sospetto e la paura. E con la paura il distacco e l’ostilità. Spesso non c’è nulla di eclatante, si tratta di sguardi, di giudizi, di modi di approcciare o di schivare le persone. La gente non ci fa molto caso, ma chi deve subire questo trattamento sente il tutto come un “macigno” duro da portare.
È un razzismo strisciante e velenoso perché non ha odore né sapore, ma abita anche dalle nostre parti. Sarebbe sufficiente ascoltare i discorsi da bar o da centri commerciali per rendersi conto di quanto sia presente. Tuttavia persiste l’idea di “italiani brava gente”. Certo anche qui bisogna non fare di ogni erba un fascio, perché c’è chi non si lascia invischiare dal virus. Ma Salvini poteva risparmiarsi la banalità del giorno: “Gli italiani sono da sempre generosi, accoglienti e solidali”. Qualche volta sarebbe bene fare un po’ di esame di coscienza.
Giovanni Barbieri