
Le responsabilità del Giappone per il dramma delle “donne di conforto”

Tra le tante storie che narrano delle violenze, prevaricazioni, umiliazioni cui le donne sono state sottoposte nel corso della storia (una “linea rossa” che continua ancora oggi), una sentenza di un tribunale di Seoul (Corea del Sud) l’8 gennaio, ha riportato in primo piano lo schiavismo sessuale attuato dal Giappone nei confronti di giovani donne coreane – ma anche di altri territori occupati: cinesi, filippine, taiwanesi, birmane, indonesiane – strappate alle famiglie per diventare “donne di conforto” – comfort women -, di fatto prostitute, nelle case di tolleranza per i militari dell’esercito giapponese. Un costume delittuoso iniziato con il reclutamento “volontario” di donne giapponesi e poi trasformatosi in una vera e propria forma di persecuzione nei confronti di donne obbligate a sottostare a trattamenti disumani: oltre agli stupri, prevedevano altre forme di violenza fisica e di tortura. La citata Corte di Seoul ha ben bollato tali scelte: “atti criminali commessi dall’esercito giapponese in modo pianificato e organizzato”. Come per tante altre cose di cui una persona o un popolo debbano vergognarsi – l’impero del Sol Levante in questo non è certo da solo – anche in tal caso non è stato facile far emergere la verità, per avviare una qualche forma di riconoscimento delle colpe e di risarcimento, morale ma anche economico, delle vittime o dei loro eredi.
Data la mancanza di documenti, inesistenti o distrutti alla fine della guerra, la stima del numero delle vittime è rimasto approssimativo: è stato calcolato che dal 1932 al 1945, tra le 50 mila e le 200 mila donne (in realtà, in molti casi poco più che bambine o comunque adolescenti) per la maggior parte sudcoreane, siano state rinchiuse in case di tolleranza gestite dalle stesse forze armate, chiamate comfort stations, e lì costrette a prostituirsi per le truppe dell’imperatore Hirohito.
La prima azione giudiziaria fu avviata presso il tribunale di Tokyo nel 1991 da tre superstiti coreane che sostenevano di essere state obbligate ad una forma di schiavitù sessuale e per questo chiedevano la condanna dell’esercito giapponese e un risarcimento.
Prese così il via tutta un’attività di ricerca storica finalizzata a rispondere a domande molto imbarazzanti per lo Stato giapponese: quanto l’esercito e, per estensione, il governo giapponese possono essere considerati direttamente responsabili di tali violenze? che tipo di risarcimento è dovuto alle vittime? Un contributo importante, in questo tentativo di far sempre maggior chiarezza, è stato svolto da Yoshimi Yoshiaki, professore di Storia moderna giapponese alla Chuo University di Tokyo. Ancora oggi, però, in occasione della sentenza coreana, le autorità giapponesi cercano di sfuggire al riconoscimento della piena responsabilità. Così viene invocata l’inviolabilità della sovranità nazionale, per la quale un tribunale coreano non ha giurisdizione al di fuori dei suoi confini. Il ministro degli Esteri, Mogi, ha inoltre sostenuto la tesi che con l’accordo Giappone-Corea del 2015 la questione delle “donne di conforto” aveva trovato una “soluzione definitiva e irreversibile”.
Una posizione contestata da chi afferma che, al di là dei risarcimenti economici effettivamente concessi, in realtà il Giappone non ha mai riconosciuto in modo esplicito il coinvolgimento e la responsabilità delle sue forze armate e del suo governo. Sull’argomento ha espresso la sua posizione anche la Chiesa giapponese attraverso un documento redatto alla fine del 2020 e reso pubblico lo scorso 7 gennaio: “Dichiarazione di richiesta al Governo, nella ricorrenza del 20° anniversario del Tribunale internazionale delle donne sui crimini di guerra”.
Dopo aver ripreso i punti più significativi del problema, il documento definisce quel sistema “un crimine nazionale” e sottolinea come la violenza sessuale, spesso impunita, sia ancora diffusa nella società e che anche alcuni componenti della Chiesa se ne sono macchiati; di questo la Chiesa si è assunta la responsabilità. Si rivolge, poi, al primo ministro Suga affermando che il Governo giapponese dovrebbe “affrontare i fatti, conservandone senza paura la memoria perché non si ripetano mai più”. Perciò chiede al governo di riconoscere ufficialmente il sistema “donna di conforto” come sistema di “violenza e schiavitù sessuale” noto allo Stato giapponese, di ascoltare le ragioni delle vittime e di risarcirle secondo le loro richieste, di presentare scuse pubbliche e formali, di inserire nella Storia ufficiale del Giappone la vicenda delle “donne di conforto” per non dimenticare.
Un interessante, anche se drammatico, approccio a questa triste vicenda si può avere con la lettura del libro Figlie del mare di Mary Lynn Bracht, ed. Longanesi.
Antonio Ricci