Medioriente di nuovo a ferro e fuoco dopo l’uccisione del generale Soleimani
Difficile dire cosa sia passato per la testa al presidente degli Stati Uniti nel pomeriggio di giovedì 2 gennaio, quando, in un summit con pochi, fidati collaboratori, ha preso la decisione di dare il via ad una delle azioni di politica estera più importanti della sua presidenza: l’attacco aereo, con l’uso di droni, finalizzato all’uccisione, a Bagdad, del generale iraniano Qassem Soleimani, comandante storico dei Guardiani della rivoluzione, uno dei più grandi nemici degli Stati Uniti. Il tutto alla luce del sole, anzi, con successivo annuncio a tutta la comunità internazionale.
C’è chi pensa che abbiano pesato i suoi problemi relativi all’impeachment, altri ritengono che sia una prova di forza in vista delle elezioni presidenziali di novembre: comunque sia, tutti sperano che questo gesto non debba andare a fare il paio con quello ormai storico dell’arciduca Francesco Ferdinando, erede al trono d’Austria!
Il fatto, al di là dell’opinione che si possa avere della vittima, è molto grave, tanto più in quanto compiuto in “flagranza di reato”: fino a qualche tempo fa l’attentato sarebbe stato compiuto sotto copertura, da forze speciali o da sicari, comunque lasciando l’incertezza sul mandante.
Non che questo potesse mutare la valutazione morale del gesto, ma per lo meno diverse avrebbero potuto essere le conseguenze sullo scenario politico internazionale. Perché un fatto è certo: siamo di fronte a “un atto di guerra che avrà serie ripercussioni in tutta l’area mediorientale e che coinvolgerà sia Israele, quale potenziale target di vendetta iraniana, che tutta la comunità internazionale, Europa in testa”.
Sono le parole con le quali il generale Vincenzo Camporini, consigliere scientifico dello Istituto affari internazionali (Iai), commenta al Sir l’uccisione del generale iraniano. Una scelta che rischia di rendere sempre più vicino il punto di rottura tra Iran e Stati Uniti e il conseguente rischio di una guerra tra i due stati che, pur essendo in forte contrasto da diverso tempo, fino a ieri erano riusciti a contenere le scaramucce entro termini ‘ragionevoli’.
Ci si troverebbe, in altre parole, di fronte ad un grosso e pericoloso frammento di quella guerra a pezzi che il Papa va denunciando da tempo, con il rischio, una volta raggiunta la massa critica, di una clamorosa deflagrazione. Le prime reazioni si sono già manifestate.
Dopo le minacce a parole, nella giornata di mercoledì 8 c’è stato un attacco missilistico iraniano contro le basi militari americane di Ayn al-Asad e di Erbil in Iraq e non è ancora ben chiaro il motivo della caduta, lo stesso giorno, di un aereo ucraino decollato da Teheran, con il bilancio di più di 170 morti.
Una chiara dimostrazione dei mutati equilibri politici in Iran, con il governo guidato da Hassan Rohani, che ha sempre avuto un atteggiamento più accomodante nei confronti del ‘grande satana’, messo alle corde dall’ala interventista rappresentata dai pasdaran, devoti al generale ucciso.
L’idea che in tutto questo guazzabuglio possa essere trascinato per intero anche Israele è tutt’altro che peregrina, con quali conseguenze è facile immaginare. Le scene di esaltazione e rabbia che hanno accompagnato i funerali di Soleimani lasciano presagire eventi poco piacevoli.
La tensione resta altissima con Trump che si dice pronto “a qualunque risposta sia necessaria” e la guida suprema iraniana Khamenei che risponde con un macabro: “Prepara le bare”. Forte preoccupazione e un invito alle parti al negoziato ha espresso il patriarca cattolico caldeo e presidente dei vescovi cattolici d’Iraq, card. Louis Raphael Sako: “Gli iracheni sono sotto shock per quanto accaduto nell’ultima settimana. Essi temono che l’Iraq diventi un campo di battaglia, piuttosto che un Paese sovrano, capace di proteggere i suoi cittadini e la sua ricchezza. In circostanze così critiche e tese, è saggio riunire intorno ad un tavolo tutte le parti interessate perché abbiano un dialogo ragionevole e civile che risparmi conseguenze inimmaginabili per l’Iraq”.
L’Unione europea, impegnata a gestire diplomaticamente anche la crisi libica, per il momento non è riuscita ad andare oltre qualche dichiarazione che invita le parti ad evitare ad ogni costo l’escalation dell’uso della forza militare. Charles Michel, presidente del Consiglio europeo, ha sottolineato il rischio di una riacutizzazione della violenza in tutta la regione e la ripresa degli attacchi terroristici. Da parte sua, la Commissione europea, riunitasi sotto la presidenza di Ursula von der Leyen, ha dichiarato che “l’uso delle armi deve fermarsi adesso per dare spazio al dialogo” e si è detta decisa a “fare tutto il possibile per riaprire i colloqui”. Venerdì 10, a Bruxelles, è previsto un incontro straordinario con i ministri degli esteri dei 28 Paesi Ue.
(a.r.)