
Bagnone. Il racconto degli ultimi pastori vichesi
Giugno, mese ricco di sole ,di colori, di bionde spighe… rappresentava, per noi pastori, il tempo della transumanza. Salivamo, verso l’Arpa,ossia l’ Appennino, con il bestiame.
Mucche, pecore, capre erano l’unica ricchezza in quanto garantivano il cibo (latte, formaggio, ricotta, burro…) alle tante “bocche” delle famiglie patriarcali. Si partiva molto presto, al dilagare delle prime luci, cercando di evitare la calura. In fila, come in processione, lungo gli antichi tratturi, già solcati dagli avi,al suono dei tanti campanacci.
Ad aprire la lunga carovana, gli asini carichi di pentole che sarebbero servite per la lavorazione del latte. Immancabile il suono della “lumaca”, un corno a forma di chiocciola o di conchiglia, con cui salutavamo, dalla cima dei monti, i famigliari che rimanevano a casa, intenti ai lavori dei campi. Era un suono che aveva il sapore della malinconia, visto che dovevamo rimanere lassù, sotto gli eleganti faggi, fino a Settembre. Ma c’era anche la speranza di una stagione buona e fruttuosa.
Gli alpeggi maggiormente frequentati erano: Badignana, Guadine, Fagianelli, Baton… L’erba era rigogliosa, le acque fresche e cristalline, il cielo turchino mentre la natura, provvida madre, regalava mirtilli e lamponi per la gioia dei nostri ragazzi.
Già, i nostri ragazzi ! Cominciavano presto ad aiutare i genitori facendo la guardia alle bestie mansuete ed imparando a divenire giovani pastori. Gli uccelli, roteando in alto con i loro cinguettii, rallegravano le lunghe giornate uniformi. I pasti erano molto frugali, consumati, sovente, con i pastori viciniori.
Non mancavano le chiacchierate, le attese condivise di un futuro migliore per le giovani generazioni. “A speriam che, adman, la vaga mei pri nostri fioi e che in fagan la fadighia nostria” (Speriamo che, domani, vada meglio e che i nostri figli non abbiano a ripetere le nostre fatiche).
Preoccupazioni paterne, ben capibili e condivise, in tempi di “vacche magre” per mancanza di lavoro per troppi giovani. La sera, dopo l’impegno della giornata, ci si concedeva una partita a carte e un bicchiere di vinello, regolarmente aspro eppur gradito,nella cornice dei canti popolari che tutti avevamo imparato a memoria. Erano soprattutto i pezzi delle “trincee”come “Ta pum” e “ monte Canino”, forse per atavico richiamo delle radici. Radici salde, coriacee di cui siamo fieri.
Eredità genuina da coltivare e da offrire , ormai, ai pronipoti che,ai nostri racconti , sgranano gli occhi come se ascoltassero degli alieni. Molto bravi nel narrare fole. Questa volta vere, manducate, indelebili. Un capitolo di storia che,nonostante il rapido passare del tempo ed il continuo mutare dei contesti, appartiene alla nostra civiltà agreste – pastorale. Da cui proveniamo.
(Ivana Fornesi)