Don Lorenzo Milani, fedeltà e libertà

Il 26 giugno 1967 moriva il priore di Barbiana. La straordinaria unicità di un personaggio per il quale è stato necessario aspettare fino al 2013 per la piena riabilitazione. 

don milani“Quello che io credo degno di essere soprattutto ricordato in don Milani, perché non sia strumentalizzata la sua figura, è il fatto che egli ha saputo unire, in un maniera inimitabile, la fedeltà ai suoi principi di fede e alla Chiesa e la libertà. Un’armonia tesa, pronta alle espressioni apparentemente incontrollate, che talvolta facevano paura anche a noi suoi amici che leggevamo i suoi scritti appena freschi sotto la sua penna; e tuttavia una fedeltà senza incrinature. In questo senso, pur avendo conosciuto molti testimoni di fedeltà alla Chiesa in questi anni, non ho paragoni da fare”. Così padre Ernesto Balducci, nel 1971, iniziava una conferenza il cui testo è riportato nel libro “Io e don Milani”, pubblicato quest’anno dalle Edizioni San Paolo.
Sul Priore di Barbiana sono state scritte tante considerazioni, dopo la sua morte spesso è stato “tirato per la tonaca” nel tentativo di portarlo su posizioni che magari lui avrebbe respinto. Queste poche righe di Balducci rendono bene l’idea dell’unicità di quel personaggio, che ha dovuto attendere una cinquantina d’anni (ricorre proprio il 26 di questo mese il mezzo secolo dalla sua scomparsa) per essere riabilitato dalla Chiesa in forma ufficiale e per ottenere, insieme ad un altro prete “scomodo”, don Primo Mazzolari, la visita di un Papa alla sua tomba.
Al di là di tanti scritti – suoi o su di lui – restano fissi nella memoria i suoi tre libri “culto”. Tre opere che, in linea con la figura tormentata di don Lorenzo, lo hanno messo in contrasto, di volta in volta, con la Chiesa – “Esperienze Pastorali” fu ritirato dal commercio per ordine del Sant’Uffizio e riabilitato solo nel 2013 – e con lo Stato: “L’obbedienza non è più una virtù”, in difesa dell’obiezione di coscienza, è legato al processo per apologia di reato; “Lettere a una professoressa” è forse l’atto di accusa più forte contro le ingiustizie della scuola di stato nei confronti degli alunni più deboli.
Ciò che maggiormente stupisce della vicenda di “Esperienze” è il fatto che non si trattava di una pubblicazione clandestina, ma di un libro uscito (nel 1958) con l’imprimatur dell’arcivescovo di Firenze Elia Dalla Costa, dopo aver ottenuto il “nihil obstat” da parte del revisore padre Reginaldo Santilli, domenicano, che ebbe a definire don Milani un “figlio obbediente della Chiesa”. Oltre a ciò, una prefazione scritta da mons. Giuseppe D’Avack, arcivescovo di Camerino, che non solo non presenta rilievi al testo, ma approfondisce a avvalora la gravità dei temi pastorali esposti. A rendere ancor più particolare “Esperienze”, sono la dedica iniziale “ai missionari cinesi del Vicariato apostolico d’Etruria, perché contemplando i ruderi del nostro campanile e domandandosi il perché della pesante mano di Dio su di noi, abbiano dalla nostra stessa confessione esauriente risposta”, cui segue, alla fine del libro, la “Lettera dall’oltretomba, riservata e segretissima ai missionari cinesi”. Scioccante l’appendice: quella “lettera a don Piero” in cui don Lorenzo riferisce quanto ha fatto per difendere il giovane Mauro dal licenziamento e spiega le condizioni di sfruttamento presenti nelle industrie tessili pratesi. A conclusione, la prima affermazione del modo di procedere del sacerdote: vengono citati gli allievi della Scuola Popolare di S. Donato e della Scuola Serale di S. Andrea a Barbiana che “hanno collaborato alla presente opera”.
Più personali, sia pure motivati dal suo essere “maestro” per i suoi ragazzi, i testi legati al contrasto di don Milani con i cappellani militari della Toscana, raccolto nel libro “L’obbedienza non è più una virtù”. Nel 1965, i cappellani in congedo della Toscana, dichiarano di considerare “un insulto alla patria e ai suoi caduti la cosiddetta ‘obiezione di coscienza’ che, estranea al comandamento cristiano dell’amore, è espressione di viltà”. La reazione di don Milani, pubblicata su ‘Rinascita’, è, sia pure a parole, violenta: inizia col chiedere loro “perché avete insultato dei cittadini che noi e molti altri ammiriamo” e “perché avete usato, con estrema leggerezza e senza chiarirne la portata, vocabili che sono più grandi di voi”. Dopo di che, facendo riferimento alla Costituzione, esamina le guerre sostenute dall’Italia negli ultimi “100 anni di storia”, chiedendo se “in quei casi i soldati dovevano obbedire o obiettare”. Fa inoltre notare che “la Chiesa non si è ancora pronunciata né contro di loro – obiettori – né contro di voi… Chi vi autorizza a rincarare la dose?”. Segue la denuncia da parte di un gruppo di ex combattenti, che dà origine alla famosa “Lettera ai giudici”, scritta da un don Lorenzo già messo a dura prova dal male che lo porterà alla morte. Scrive: “Non sarà infatti facile ch’io possa venire a Roma perché sono da tempo malato… la malattia è l’unico motivo per cui non vengo”. Il processo si concluderà con l’assoluzione, ma su ricorso del pubblico ministero, dopo la morte di don Lorenzo, la Corte d’Appello modificherà la sentenza di primo grado e condannerà lo scritto.
“Lettera a una professoressa” (1967) è troppo noto e commentato per trattarne in poche righe. Ci piace, anche in questo caso, sottolinearne alcune peculiarità. Nonostante il titolo, nella presentazione si afferma che “questo libro non è scritto per gli insegnanti, ma per i genitori. È un invito a organizzarsi”. L’autore non è più don Milani: “a prima vista sembra scritto da un ragazzo solo. Invece gli autori siamo otto ragazzi della Scuola di Barbiana”. A tirare le fila, però, c’è sempre lui: i ragazzi ringraziano “prima di tutto il nostro Priore che ci ha educati, ci ha insegnato le regole dell’arte e ha diretto i lavori”: fino all’ultimo respiro di vita, sul letto dove morirà. Lapidario il titolo della parte prima: la scuola dell’obbligo non può bocciare”!

Antonio Ricci