Le divisioni del cattolicesimo italiano in occasione del referendum sul divorzio

Cinquant’anni fa la consultazione sul divorzio: promossa dai cattolici, mise la Chiesa davanti ai mutamenti della società italiana e ad una lacerante contrapposizione interna

Un Paese sempre più secolarizzato nel quale i cattolici si trovarono ad essere per la prima volta una minoranza: è ciò che rappresentò per la Chiesa italiana il 12 maggio 1974, il giorno in cui gli elettori, per la prima volta chiamati ad esprimersi in un referendum abrogativo, respinsero con il 59,3% dei voti la proposta di sopprimere la legge che nel 1970 aveva introdotto il divorzio. Non fu dunque un risultato di misura, come previsto da molti, a decidere il mantenimento della legge che portava i nomi del socialista Loris Fortuna e del liberale Antonio Baslini, approvata mettendo in minoranza la DC, partito di maggioranza relativa e di governo. Durante l’iter parlamentare della legge, la Santa Sede aveva in un primo tempo perorato l’idea di un divorzio ammissibile per i matrimoni civili e vietato per i matrimoni concordatari. La proposta, accolta con favore da parte della DC, fu presto accantonata per il rischio di incrementare il numero dei matrimoni civili. La conseguenza fu un no compatto del partito che però ottenne, proprio come contropartita al divorzio, la legge attuativa dei referendum, nell’illusione di una parte della sua dirigenza (con varie eccezioni, tra cui quella di Aldo Moro) di poter capovolgere nel Paese il voto parlamentare. In questa convinzione era evidente la fatica di molti a cogliere nella società italiana i mutamenti culturali e di costume conseguenza di una modernizzazione, innanzitutto in ambito economico, impressa proprio dai governi a guida democristiana.

San Paolo VI, Giovanni Battista Montini (1897 – 1978). (Foto Wikipedia – CNS photo).

Inoltre, un referendum che accantonava la mediazione della rappresentanza politica in favore di un’espressione diretta dei cittadini non appariva la strada migliore per ottenere almeno una revisione in senso restrittivo del divorzio. Lo comprese Paolo VI, che sostenne il Sì ma, a differenza della maggior parte dei vescovi italiani, non fu entusiasta dell’idea della consultazione, definita privatamente dal Papa, secondo alcune ricostruzioni, «un eroismo dei cattolici italiani pastoralmente inutile». La campagna referendaria fu una prova lacerante per la Chiesa italiana, percorsa dopo il Concilio da fermenti, tensioni e dissensi di tale intensità che Papa Montini, già nel 1972, si spinse a parlare di «fumo di Satana» penetrato nel tempio di Dio e di un tempo «di nuvole, di tempesta, di buio, di ricerca, di incertezza». Il referendum contribuì ad esacerbare ancor di più questo clima. L’area antidivorzista, capace di raccogliere nel 1971 quasi 1,4 milioni di firme per indire la consultazione, per non trasformare il voto in un giudizio sulla morale cattolica motivò laicamente la propria posizione, presentando il matrimonio come istituto di diritto naturale e non come sacramento.
Protagonisti di questo fronte furono Amintore Fanfani sul piano politico e Gabrio Lombardi su quello intellettuale; quest’ultimo, già storico presidente dei Laureati cattolici, guidò il comitato referendario supportato da personalità del mondo intellettuale cristiano del calibro di Augusto del Noce e Giorgio La Pira e da movimenti come Comunione e Liberazione di don Luigi Giussani e i redivivi Comitati Civici di Luigi Gedda.

Amintore Fanfani vota al referendum sul divorzio a Roma, il 12 maggio 1974 (da Wikipedia – foto Keystone/Getty Images)

La spaccatura interna alla Chiesa si manifestò attraverso un appello contrario all’abrogazione della legge, basato sull’affermazione di «valori di convivenza civile e di libertà religiosa essenziali in una società pluralistica e democratica» e sottoscritto da numerosi intellettuali cattolici, ai quali si unirono esponenti della Cisl, come Pierre Carniti e Mario Pastore, e delle Acli (che però non diede indicazioni di voto).
Ma fu soprattutto il carismatico ex presidente dei giovani di Azione Cattolica Carlo Carretto, nel frattempo divenuto monaco della congregazione di Charles de Foucauld e rientrato dagli anni del deserto in Africa, ad assumersi la responsabilità clamorosa di una posizione pro divorzio (ritrattata un anno dopo), con un articolo su La Stampa nel quale testualmente affermava: “Voto No… E Tu, Signore, per chi voti? Mi par di saperlo dalla pace che sento dentro di me”.
Destò polemiche pure la posizione di Giuseppe Lazzati, Rettore dell’Università Cattolica del Sacro Cuore: pur dichiarando che avrebbe votato Sì, prese le distanze dallo strumento referendario, attirandosi le critiche degli antidivorzisti, complice anche la decisione di annullare un evento della campagna per il No all’interno dell’università per la presenza di molti studenti dell’ateneo milanese, militanti della sinistra extraparlamentare, decisi a impedirne lo svolgimento.
Il Papa non nascose la sua amarezza per l’esito del voto, ma i cattolici pro divorzio non subirono condanne o allontanamenti, fatta eccezione per la sospensione a divinis comminata all’Abate di San Paolo fuori le Mura, Dom Giovanni Franzoni, conseguenza però di una lunga serie di prese di posizione reputate al di fuori della comunione ecclesiale.
Durante l’udienza generale del 15 maggio, ai cattolici che si schierarono per il No Paolo VI rivolse l’esortazione «che anch’essi effettivamente si facciano con noi promotori della vera concezione della famiglia e della sua autentica fioritura nella vita».
La frattura referendaria fu per la Chiesa italiana la definitiva presa d’atto di una nuova realtà in cui operare, senza nemmeno più il velo di una pretesa unità politica: due anni dopo, sarà il convegno ecclesiale “Evangelizzazione e promozione umana” il momento in cui ripensare la presenza e il servizio dei cattolici nella società.

(Davide Tondani)