Il campo di Gosto, quando il mondo diventa inospitale

Il campo di Gosto (Fazi Editore, 2023) romanzo di Anna Luisa Pignatelli, è spazio assediato dalla cattiveria umana. Per Gosto (Agostino), arrivato all’età della pensione, il campo, insieme alla casa e al podere ricevuti in eredità dal padrino, è tutta la sua vita.
Il lavoro di recupero dei beni abbandonati e ormai in rovina riempie giornate che altrimenti sarebbero vuote. Fra ricordi e progetti il protagonista vive ai margini in un luogo quasi disabitato.
Gosto è un personaggio solitario che, per non veder crollare la sua fiducia nell’essere umano, si isola dagli altri e cerca il contatto con la natura. Zelia, la moglie, più decisa e disincantata, sa di non poter contare su nessuno. Stanca di vivere in un paese ostile, è tornata dalla madre lasciando Gosto solo in mezzo ai lupi. Il tema dell’inospitalità del mondo, corrotto dal male, è il leitmotiv del romanzo.
La trama si svolge in un piccolo paese vicino a Siena, toccato dal progresso, ma assume una valenza universale. L’uomo non sa liberarsi dal peggio che abita in lui. Il benessere non attenua la malvagità, ma eccita avidità e violenza.
Gosto vuole essere sé stesso e ha un disperato bisogno di credere che l’uomo non sia malvagio, ma l’esperienza quotidiana lo contraddice. L’eredità suscita l’invidia degli altri che diffondono su di lui insinuazioni e maldicenze.
Per aver dato un passaggio su un’ Ape malconcia a Stella, ragazza tanto bella quanto ingenua, Gosto cade in una spirale di voci maliziose. Quando poi Stella scompare, si mormora che se ne sia andata per colpa sua, anche se si sa che ad insidiarla era un giovane ricco e potente.
Proprio il capanno del campo è il luogo del misfatto. Ma tutti fanno finta di niente e Gosto, dopo una vita di paziente sopportazione, vuole giustizia senza riuscire ad ottenerla.
I potenti sono vendicativi se i deboli non si sottomettono. La scrittura della Pignatelli, con misura e senza eccedere nei toni, si addentra nella zona buia dove la malvagità mette radici.
La gente del paese, uomini e donne, odia gli estranei e tende ad escludere chi non si adegua a malsane abitudini e a canoni di comportamento dettati da interessi o da squallide complicità. Nemmeno la famiglia è un porto sicuro.
In essa, anzi, nascono i problemi che portano degrado e abbrutimento. La unicità di Gosto sta proprio nel non arrendersi al male.
Eppure non può dimenticare che Berto, suo padre, lo chiamava Storto preferendogli il fratello (“Viene su storto… anziché studiare, perde tempo a leggere strullate, e invece d’andà dritto, sta sempre a zigzagà”).
Né può evitare l’amarezza per il cinico comportamento della figlia: Mirella ha fame di denaro e vuol vendere la proprietà in cui Gosto trova attimi di serenità sempre più rari. Quando la vita era più dura, non c’era tempo per odi e invidie.
Poi tutto è cambiato e un eroe, per Gosto, è colui che sa cavarsela con poco e vede ciò che gli altri non vogliono vedere. La ferocia dell’uomo, che contrasta con la dolcezza del paesaggio toscano, richiama alla mente il senese Federigo Tozzi e la brutalità che segna la vita dei suoi personaggi.
Trascuro la amara conclusione del libro della Pignatelli per chiedermi: una vita più dignitosa è possibile? Forse bisognerebbe isolarsi dal frastuono del mondo e riflettere, in sintonia con Tozzi, sul fatto che in noi ci può essere una buca di scorpioni o un nido di usignoli.

Pierangelo Lecchini