Il suo vero nome era Ettore Schimtz. Cento anni fa pubblicava “La coscienza di Zeno”
Un secolo fa, maggio 1923, Italo Svevo pubblica La coscienza di Zeno, romanzo di eccezionale innovazione: apre l’orizzonte culturale, rompe i canoni del provincialismo verista, indaga il personaggio-uomo al di là dell’involucro visibile, una realtà profonda, intima ed essenziale, è l’inconscio, indagato su base epistemologica e medica da Freud.
È dopo la Grande Guerra che davvero cambia il mondo e la narrativa si interroga sul disagio esistenziale dell’uomo, smarrito non solo di fronte a se stesso e alla società, ma anche col mondo inteso come natura fisica: la teoria della relatività di Einstein sbaraglia il determinismo della fisica classica col suo preciso concatenamento di causa ed effetto.
La nuova scienza, la fisica quantistica e l’inconscio svelato dentro di noi influiscono sulla nuova narrativa, che definisce ciò che non può accadere: e abbiamo il teatro dell’assurdo con Jonesco e Beckett, in Italia indizi dell’età dell’insicurezza sono la relatività del “ciascuno a suo modo” di Pirandello.
Ma i massimi creatori del romanzo nuovo sono Proust, Joyce, Svevo e in disparte Kafka. Non romanzi di svago, ma di interrogazione, di analisi dello sgretolamento dell’uomo borghese con l’arbitraria concezione coerente che ha di se stesso, invece la sua cecità porta alle grandi catastrofi del secolo.
Italo Svevo è nome d’arte di Ettore Schimtz (1861-1928) studia in scuole della Baviera, è tedesco e italiano, Italo Svevo appunto. Compone senza successo i primi due romanzi Una vita (1892) e Senilità (1898), che sono capolavori di una trilogia che si completa nel 1923 con La coscienza di Zeno.
A Trieste si impiega in banca e poi si fa socio del suocero in una ditta commerciale, ma non smette di fare letteratura. Diventa amico di Joyce, che a Trieste insegnava inglese e lo farà conoscere ed ammirare nel 1925 da critici presenti a Parigi, avanguardia in tutte le arti; in Italia è Eugenio Montale a scoprirne la grandezza artistica.
Finalmente assapora il successo, ma muore nel 1928 per incidente stradale. I tre romanzi, nella diversità dell’intreccio, nascono dalla stessa matrice, sono legati dal filo rosso della condizione esistenziale dei protagonisti, inetti, incapaci di realizzare i loro progetti e di possedere la vita. Rispondono al disagio interiore, il primo col suicidio, il secondo è Emilio Brentani, giovane ma incapace di possedere la vita insieme all’amata, ambigua Angelina e si riduce a vivere la pace dei sensi propria della senilità.
Dopo 25 anni Svevo pubblica il più nuovo originale romanzo.
La narrazione riguarda non Zeno Cosini, che appare come un borghese ben realizzato, ma la sua coscienza infelice e irrequieta. Sa di essere un malato inguaribile perché la vita la concepisce inquinata alle radici, non vale la pena agire per cambiarla. Senza la linearità cronologica Svevo costruisce il personaggio attraverso i momenti e i motivi cruciali della sua esistenza. Ci sono più punti di vista: del dottor S che pubblica per vendetta gli appunti autobiografici di Zeno fissati su un quaderno come preludio alla cura in analisi, ma il paziente Zeno ha scritto bugie, ha selezionato quello che gli pareva, altro che abbandonarsi al flusso di coscienza con sincerità!
Comincia con l’analisi del suo vizio del fumo, sigla le pagine con u.s. ma mai ci sarà l’ultima sigaretta. Il quaderno labirintico, che raccoglie gli aspetti contradditori e in evoluzione continua delle sue dissociate esperienze, è il punto di vista di uno Zeno ormai vecchio che cerca di ritrovare l’identità di quando era giovane.
La sua vita è andata su strade tutte diverse da quelle desiderate: voleva studiare violino e si ritrova bancario e poi commerciante, ama Ada e sposa la sorella Augusta, brava moglie e così fiduciosa che non si accorge di una relazione adulterina in cui Zeno si è ritrovato casualmente.
Di questa malattia incurabile della coscienza sono segnali le cantonate, i lapsus in cui si intriga, quale quello del funerale: crede di seguire il feretro del cognato Guido e si ritrova al cimitero ebraico di Trieste. Il romanzo assume sfumature umoristiche: è l’ironia la risposta al malessere interiore di Zeno, consapevole di non saper avviare un rapporto cordiale e operoso con la realtà: “la vita non è né buona né cattiva, è originale”.
La visione della vita espressa dall’arte di Svevo è consona al tempo storico della società borghese della belle époque, illusa di progresso illimitato, ha solo la dimensione del presente, non recupera il passato perché è stato vuoto di contenuti e per il futuro non ha progetto; per cambiare bisognerebbe far saltar in aria il pianeta e dare un nuovo inizio alla storia
Ci sono critici che vedono somiglianze, certamente involontarie, tra Zeno e Charlot, lo sgangherato personaggio di Chaplin: vivono una stessa dimensione problematica dell’uomo di fronte al senso della vita, non connaturata ma dovuta a precise ragioni storiche. Il diario di Zeno chiude con l’inizio della guerra provocata dalla spirale dei nazionalismi, del colonialismo per sostenere il dominio del profitto e della speculazione finanziaria.
Svevo la condanna e vede come alternativa alla catastrofe, che poi è venuta, soltanto l’acquisizione di responsabilità individuale e consapevolezza della condizione umana. L’arte è profetica, anticipa quel che verrà: il disagio di vivere di Zeno è entrato dentro di noi tutti.
Maria Luisa Simoncelli