Giulio Ravenna, appassionato frequentatore e fine conoscitore del teatro, sempre presente agli spettacoli di Officine TOK in Monzone, è stato stimolato a commentare e a sviluppare delle riflessioni, dopo aver assistito a “Vicks… Sì, proprio la pomata!” di Elisabetta Dini ed Ines Cattabriga, “un connubio ben assortito, al quale tutti dovrebbero essere riconoscenti, per aver avuto l’intuizione ed il coraggio di proporre cultura”.
Riproponiano qui il testo, rielaborato in sintesi, da una recensione scritta dallo stesso Ravenna ad uso personale e per il sito internet delle autrici. Innanzitutto Giulio si interroga sul rapporto fra teatro e società, sofferente “per il disinteresse di quest’ultima verso i valori di riferimento e i percorsi dell’anima, a vantaggio di paradisi precari ed effimeri”. In questo quadro il teatro si propone come “una sorta di grafico capace di semplificare la lettura di una realtà estremamente complessa, come fa, quando attraverso una seriazione di numeri rende facilmente comprensibile un fenomeno complicato”.
Per questo a teatro le persone vanno per divertirsi, per evadere, per stupirsi, per emozionarsi, per scoprire nuovi aspetti della natura umana, e, così, il teatro diventa magicamente la “proiezione delle loro suggestioni e fantasie, ma, soprattutto, una specie di elemento in grado di colmare vere o presunte differenziazioni culturali”.
Viene a proposito la considerazione di Ennio Flaiano, che nella diffusione della cultura vi è un aspetto comico e cioè che tutti vogliono o sono costretti a capire tutto. Cosa c’entra questa premessa con “ Vicks…”? C’entra “il fatto che per fare teatro è necessario avere i piedi saldamente appoggiati sulle nuvole ed affrancarsi dalla realtà, partendo, paradossalmente, da essa. E proprio ‘Vicks’ è una sorta di viaggio nella memoria, che fa pensare che non esiste teatro senza una fiducia infantile nella memoria stessa…
La memoria, nel testo teatrale di Elisabetta, diventa un elemento centrale della vita, uno dei valori più nobili avuti in dono. È il ricordo, infatti, che non solo rende eterne le vicende e le figure, ma le attualizza fino a renderle parte di noi stessi. Tutto questo è reso dall’autrice, grazie alla sua consolidata esperienza, con estrema leggerezza, senza abbandonarsi ad esaltazioni o melanconie troppo amplificate. Le figure, pur conservando una leggera patina di nostalgia, appaiono vive ed attuali, quasi immortali.
I luoghi stessi e le cose sembrano non secondari rispetto alle figure, sono anzi essenziali, avendo mantenuto la loro integrità contro l’azione inesorabile del tempo, divenendo un patrimonio da conservare per alimentare i moti e le pulsioni dell’anima”. Lo spettacolo è piacevole ed Elisabetta passa con disinvoltura dall’ironia alla malinconia, dalla nostalgia alla dolcezza che il ricordo suscita. Lo spettatore è avvolto in una atmosfera empatica che lo porta ad immedesimarsi nello spettacolo, “da cui si esce con un senso di disagio e di rammarico per la percezione di un passato ricco di valori e di una attualità proiettata verso l’egoismo ed il personalismo”.
Diventerà attuale il pensiero di Flaiano che essere pessimisti non è altro che anticipare il futuro? Elisabetta ed Ines meritano un elogio per le emozioni che riescono a suscitare e per le occasioni di riflessione che propongono.
Andreino Fabiani