Nel libro di Nicola Bultrini un messaggio di salvezza e di rigenerazione attraverso l’arte e la cultura
L’esilio come “punto focale della conoscenza del mondo e del destino dell’uomo”; per il grande poeta russo J. Brodskij, costretto a espatriare nel 1972, come in epoca medievale accadde a Dante, l’esilio non è stato solo “una condanna esistenziale”. L’esule, se non vuole essere sommerso, deve trovare la forza di capire: è un atteggiamento decisivo per difendere la personalità dal rischio di dissolversi. In questo tentativo di conoscenza che ruolo ha la poesia, la scrittura o la lettura della poesia?
É la domanda a cui cerca di rispondere Nicola Bultrini, poeta e saggista, autore di un libro, “In esilio con Dante”, fra i più interessanti pubblicati in occasione del settimo centenario della morte di Dante. La poesia della “Commedia” nasce dalla drammatica esperienza dell’exul immeritus, e si reincarna nella sofferenza dei prigionieri della Grande Guerra, degli internati nei lager, dei confinati nei luoghi dove il condannato diventa nessuno. L’esilio è stato per l’Alighieri separazione, perdita, ma anche meditazione sull’ingiustizia e sulla necessità di un ritorno a Dio, somma giustizia. Dante ha indicato la via: per non soccombere bisogna confrontarsi con il male. Bisogna capire. Sempre, chi è scampato all’annullamento ha sentito il dovere morale di migliorare il mondo.
Dalla poesia viene, dunque, un messaggio di salvezza e di rigenerazione. “Ahi serva Italia… fatti non foste a viver come bruti… l’esilio che m’è dato onor mi tegno… come sa di sale lo pane altrui”. Le lecturae Dantis come preghiera, cura, coinvolgimento emotivo. “Nei campi di concentramento, dove totale è stato il tentativo di assoluto annichilimento del senso di umanità… l’uomo ha tenacemente e disperatamente rivendicato la propria umanità facendo ricorso all’arte”. Bultrini esamina la tesi di Adorno sull impossibilità di scrivere poesia dopo Auschwitz. Non si deve però dimenticare che arte e poesia nell’inferno dei lager sono state nutrimento salvifico, urlo, testimonianza dell’indicibile.
Nel libro di Bultrini rivivono le vicende dolorose di Gadda prigioniero nella Grande Guerra, di P. Levi e di Guareschi reclusi nei campi nazisti. Fra tanti nomi famosi con sorpresa ho trovato anche quello di Orlando, mio padre, che nel suo “Per non chinare la testa” ha dedicato un capitolo alle attività culturali nelle squallide baracche che evocavano l’immagine dei gironi e delle bolge dantesche. Dante è stato per i prigionieri una presenza viva, non una reminiscenza letteraria.
Lo dimostra la Divina Commedia di Osnabrük, giornale satirico che il libro di Bultrini strappa all’oblio a cui queste iniziative rischiano di essere condannate.
“Con Dante in esilio” è, dunque, una riflessione sul rapporto fra la storia, individuale e collettiva, e l’arte. Ma soprattutto è un coraggioso tentativo di confrontarsi con un paradosso “spiazzante”: anche gli aguzzini avevano interesse per l’arte e per la musica.
Bultrini sostiene che siamo spirito e carne bruta, estasi e distruzione, contemplazione e cecità. L’arte può salvare solo a patto che si sia disposti ad aprirsi alla verità dell’umano. Ma su questo problema si spalanca “l’abisso del mistero più profondo e insondabile dell’animo umano”.
Pierangelo Lecchini