Uno studio commissionato dalla Cisl e riferito ad una media quanto economicamente sviluppata provincia del Nord italiano (Verona) confrontabile con altre simili in zona, ha svelato che la ripresa economica c’è, che le cose sono notevolmente migliorate dal 2014 ad oggi; ma che i benefici di questo miglioramento sono – per così dire – “asimmetrici”.
Stabilito che il valore aggiunto netto di 3.888 aziende manifatturiere e dei servizi considerate è aumentato di circa il 15% nel periodo preso in esame (e questo dimostra che le cose sono in miglioramento), questo valore ha finito per beneficare molto di più gli imprenditori (l’utile distribuito è quasi raddoppiato) che i lavoratori, che invece percentualmente hanno perso un buon 5% di quota della ricchezza prodotta. In realtà i lavoratori guadagnano esattamente quel che guadagnavano negli anni precedenti.
Il di più è stato intascato dai proprietari delle aziende, ma molti di essi si sono aiutati con risorse economiche proprie, quindi i soldi usciti dalla porta, in molti casi sono ritornati dalla finestra.
Altri dati, combinati con questi, raccontano che buona parte della competitività recuperata dalle aziende italiane deriva dalla compressione del costo del lavoro: blocco degli aumenti, retribuzioni più basse, molto “nero”, contratti scelti per comprimerne il più possibile il costo. Ciò è più evidente nel settore dei servizi, che pesa per tre quarti rispetto all’intera torta dell’economia italiana; il manifatturiero, invece, è riuscito a produrre ricchezza aggiuntiva grazie all’innovazione e alle esportazioni.
Il taglio delle retribuzioni non può essere l’unica strada per affrontare le sfide della globalizzazione; ha più senso puntare su di una contrattazione sempre più decentrata (a livello aziendale) e sulla consapevolezza che quella italiana è un’economia troppo disomogenea per standardizzare le condizioni economiche: laddove uno stipendio minimo è da fame a Milano, si rivela sontuoso a Reggio Calabria.
Tale squilibrio sotto la Madonnina produce condizioni non accettabili se non per breve tempo e spinge i migliori ad andarsene all’estero, mentre sullo Stretto la contrattazione collettiva non viene nemmeno considerata e si aggirano condizioni viste come proibitive dalle aziende locali con i pagamenti in nero. Così diffusi che a Reggio, secondo il giuslavorista Pietro Ichino, quasi la metà dei lavoratori del settore privato non sa nemmeno cosa sia un contratto.
N.S. – Agensir