Suoni tristi o felici accompagnano la nostra vita
Dopo il tempo della clandestinità e delle persecuzioni, i cristiani, dal IV sec. per le celebrazioni liturgiche si sono radunati nelle chiese chiamati dal suono della campana, un oggetto di bronzo a forma di vaso rovesciato che, quando è fatto oscillare, manda un suono potente e squillante, percosso da un battaglio di ferro sospeso al suo interno.
Collocata nella cella del campanile, la campana è uno speciale strumento musicale che fa concerto con altre campane che suonano a doppio, a quattro secondo l’abilità del campanaro, figura ormai quasi scomparsa e sostituita da impianti elettrici o informatici comandati a distanza.
Secondo l’annuncio che vogliono dare varia lo squillare delle campane: a una sola nota è la campanella per la funzione quotidiana, ma quando è festa il concerto si fa grosso: è lo “stramezzare”.
Malinconica, dolente è la campana che annuncia la morte di una persona o la accompagna alla sepoltura; prima della nostra Costituzione, che nella XIV Disposizione non riconosce più i titoli nobiliari, a Pontremoli il suono del Campanone accompagnava il funerali dei nobili titolati. Sono ritualità un po’ andate perse.
Associando il sacro al profano, le campane nei secoli hanno suonato tre volte al dì per scandire la giornata nei campi: inizio all’alba, la pausa del Mezzogiorno e il riposo a sera: un orologio di computo del tempo associato a una preghiera.
Bellissimo è l’idillico dipinto l’Angelus di Jean François Millet (1814-1875) maestro della pittura realista francese: due sposi in mezzo al campo sospendono la raccolta delle patate, assorti, con le mani congiunte, a capo chino recitano l’Ave Maria; il pittore si ricorda della sua nonna che sempre a sera recitava l’Angelus per i poveri morti.
Le campane hanno suonato a martello, a ritmo battente per annunciare fatti gravi, ogni forma di pericolo improvviso, davano l’allarme per mettersi in salvo o correre in aiuto. Gli occupanti nazifascisti vietarono di suonare le campane perché potevano essere usate per mandare segnali in codice.
Mezzo per comunicare gioia le campane suonano ancora per eventi speciali della vita civile, politica. Un riferimento letterario di campane suonate a martello nel pieno della notte è nel capitolo VIII de I Promessi Sposi.
Manzoni dà espressione alla “notte degli imbrogli” in modo così dinamico, incisivo che quel testo è usato come manuale nelle scuole per preparare registi di cinema e tv. Con un ritmo di tragedia/commedia si fa del teatro: Agnese inventa una storiella per distrarre Perpetua, Tonio e Gervaso recitano la parte di saldatori di un debito per fare da paravento al tentativo di matrimonio segreto di Renzo e Lucia: è una spedizione notturna di vittime che passano per oppressori, don Abbondio spaventato in realtà sta compiendo un sopruso negando la verità sul rifiuto di sposare i due giovani,; ora furibondo grida “aiuto, aiuto, c’è gente in casa”.
Era il più bel chiaro di luna, in paese non si vedeva nessuno, il grido è sentito dal sagrestano Ambrogio che scende giù dal letto, mezzo addormentato e sbigottito, dà di piglio alle brache e se le mette sotto il braccio, senza mettersi lui nel tafferuglio, corre al campanile, afferra la corda della campana più grossa e suona a martello.
I paesani recitano pure loro la commedia della paura: chi non si muove, chi guarda dalla finestra, chi torna a letto e fa finta di non vedere.
Solo i più curiosi e i più buoni prendono i forconi e gli schioppi, scoprono che un’altra spedizione quella notte avrebbe dovuto rapire Lucia, ma i bravi di don Rodrigo si scompongono “a quel primo tocco di campana… e dietro una tempesta di rintocchi in fila” si ritirano: le campane a martello hanno assolto bene al loro compito.
Sarebbe vergogna che ogni birbone potesse venire in paese a rapire le donne, ma una voce dice che si sono messe in salvo e chi era sceso in strada torna a casa sua e l’egoismo è appagato.
Maria Luisa Simoncelli